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Nov 12

Un “Riccardo III” alla Ranieri, vale la pena seguirlo nelle repliche. Di Maurizio Bonanni

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La linea dell’universo di un artista è molto più che una curva del Destino: quest’ultima predice, infatti, dove andrai, cosa farai; ma non chi veramente tu sia. Ecco, chi è realmente Massimo Ranieri? È, forse, il suo Riccardo III, che è andato di recente in scena al Teatro Brancaccio di Roma? Quel Re deforme, che la regia di Ranieri stesso ha voluto immerso nei giganteschi chiaroscuri, che si agitano come mosche bianche, colorate di luce, sulla nera superficie curva di un grande cilindro centrale, molto più simile alla parte bassa del Tempietto romano di S. Pietro in Montorio, che alla Torre di Londra, appartamento dei sovrani, custode del Tesoro d’Inghilterra, e luogo torvo di prigionia nei suoi sotterranei oscuri. Ed è quest’ultimo, simile a un tamburo sul quale si battono i tempi del lutto (le musiche di Ennio Moricone vanno in tal senso, nel ricostruire le atmosfere del dramma shakespeariano), a schiudere, di volta in volta, il suo ventre, per illuminare dall’alto i volti dei personaggi, mentre complottano, amano, uccidono e muoiono loro stessi.

Un cilindro nero che muta, come un serpente, i suoi volumi e la sua pelle: ora catafalco, poi alcova, o ancora giaciglio carcerario e sala del trono.  Attori maschi decisamente tutti in smoking, perennemente con le sigarette accese, che mandano verso l’alto volute di fumo, come a voler creare un effetto nebbia, che cela le cose oscure, e lascia intravvedere solo quelle fortissimamente contrastate, nei sentimenti, nei colori delle vesti, nel sangue che scorre come vino sulla mensa. Le signore, invece, indossano i costumi dell’epoca, rendendo assai marcato il contrasto con mariti e parenti: la potenza espressiva dei broccati, contro la monotonia della passione maschile per il potere, che li rende tutti uguali, ugualmente sleali, demoniaci e mandanti di assassinii. Riccardo è un Signore del Male, perennemente solo con la sua perdita di coscienza. Il miraggio del trono è solo un esorcismo secolare, per una malattia dell’anima che non lascia tregua, e lo perseguita fin nel sonno profondo, con i suoi incubi notturni.

E questa, lacerante, impressionante frammentazione della coscienza perduta di Riccardo, è costantemente documentata, ai cambi scena, dai giochi di luce, dove alle linee luminose d’inviluppo sulla superficie cilindrica, si alternano l’insieme dei detriti di un’anfora frantumata, senza più la sostanza al suo interno, priva dell’olio che illumina la lampada dell’intelligenza. Perché Riccardo, sì, è un pazzo lucido, anche se la sua storia vera non ha corrispondenza con la tragedia scritta da Shakespeare, soprattutto per quanto riguarda l’infanticidio dei due nipoti, figli del fratello Eduardo IV, di cui il primogenito erede al trono d’Inghilterra. E Ranieri vuole fare della vita di re Riccardo una galleria di scheletri, in cui chi sopravvive, in realtà, è morto dentro già da molto tempo. Così, la deformità si fa fascino conquistatore di donne, che hanno subito tragici lutti, per mano di Riccardo. Perché il male, come gli occhi ipnotici del serpente, ha una sua ragione d’essere, un suo fascino mortale, nel mondo.

Così, Riccardo con le sue trame, il suo odio implacabile per i suoi nemici, soprattutto consanguinei (quelli, cioè, che hanno il massimo fattore di adiacenza, di confidenza quotidiana con lui), spaventa persino il ventre che lo ha partorito, e che maledice il giorno della sua nascita. Lui, che fa giustiziare il fratello per alto tradimento. Lui, che avvelena la moglie Anna, per sposare la nipote, figlia della vedova del fratello Edoardo. Sempre lui, che con l’aiuto dell’astuto duca di Buckingham, coinvolgendo il sindaco di Londra, riesce a farsi incoronare Re, dopo che i nipoti erano stati dichiarati illegittimi, a causa di un precedente matrimonio segreto del padre, Eduardo IV. Perché, sostiene Ranieri, Riccardo III non è un re, ma un meraviglioso attore di se stesso, della propria tragedia.

Certo, c’è di più nell’opera shakespeariana: saper suscitare alleanze e tradimenti è un’arte sottile, che non tollera né ascolta le maledizioni, come quella della deposta regina Margherita (interpretata dalla bravissima Margherita di Rauso), moglie di Enrico VI, che nei vapori dell’alcool disegna il futuro luttuoso della casata di York e la futura morte violenta di Riccardo, in battaglia, per mano dei suoi nemici. E la cadenza di quella voce di Re, che adula e minaccia, ha il suono sinistro di un tamburo che batte costantemente rintocchi funebri, perché il Male non ha altra redenzione, al di fuori della sua estinzione.

Un esperimento davvero interessante, quello di un Ranieri, che vuole rinnovare completamente, attraverso l’esercizio della forma teatrale più impegnativa in assoluto, la sua immagine di artista e di personaggio di notevole umanità e spessore.

Di Maurizio Bonanni

 

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