“Che fai, mi scippi?”. Questo potrebbe essere il grido di dolore del cittadino che assiste sgomento alle operazioni di privatizzazione del capitale di Bankitalia (BdI, in seguito), deciso dal Governo Letta, e attuato in modo rocambolesco, per almeno due motivi. Il primo, poco noto, è riferibile al Regolamento della Bce che, su operazioni analoghe, “deve” rendere il suo parere in merito. E lì, il mugugno di Draghi (sempre un po’ troppo “soft”, per la verità..), anche se appena sussurrato, si è fatto sentire, dato che la richiesta di parere gli è stata inviata soltanto cinque giorni prima -cosa davvero poco seria!- della pubblicazione del decreto-legge sulla GU. Il secondo aspetto è rappresentato dalla concomitanza tra l’aumento di capitale di BdI (con contestuale, pari diminuzione delle riserve), e la copertura finanziaria del mancato prelievo sull’Imu (2^ rata), che verrebbe, così, interamente finanziata dal mercato. Vista la delicatezza della materia, anche a seguito delle proteste -al limite della legalità- dei parlamentari grillini, il Pd ha ritenuto di veicolare via web un’informazione divulgativa (ma prima, no?), sintetizzabile come segue.
Nella nota pubblicata sul sito, in data 31 gennaio, i parlamentari “democrats” chiariscono ai loro elettori che: a) la BdI “non” è mai stata statale, ma di proprietà degli Istituti bancari e assicurativi, a norma di legge; b) San Paolo e Unicredit possiedono più del 50% delle quote azionarie di BdI ma, non avendo alcun potere sulla relativa “governance”, non c’è alcun rischio che gli azionisti diventino controllori di se stessi (beh, ci mancherebbe altro!). In effetti, il Direttivo (e in particolare il Governatore) di BdI sono di nomina governativa, con ratifica parlamentare; c) la nuova legge fissa il tetto max del 6% di rendimento sul capitale investito, quest’ultimo portato a 7,5 mld (pertanto, il rendimento complessivo non potrà superare i 450 milioni/anno, da dividersi tra gli azionisti), spostandolo dalle riserve. Morale: si modifica, in tal modo, solo lo stato patrimoniale interno della BdI; d) nessun azionista potrà possedere più del 3% delle azioni di BdI. Prima conseguenza, quindi: i due Istituti maggiori dovranno immettere sul mercato il loro 45% (almeno) di quote eccedenti, ottenendo liquidità che, una volta tassata, porterà ulteriori entrate fiscali per lo Stato. In secondo luogo, con quel 3% si andrà a rafforzare il capitale di vigilanza degli Istituti azionisti, rendendoli più solidi, dal punto di vista della maggiore copertura dei rischi (quindi, in teoria, le banche potranno prestare di più ai privati).
Attraverso la rivalutazione delle quote azionarie delle banche, infine, si fa pagare al mercato la copertura finanziaria per l’abolizione della rata IMU prima casa, di dicembre 2013, messa così a carico del settore creditizio, finanziario e assicurativo, nonché della stessa Banca d’Italia. Come? Con l’aumento degli acconti IRES e IRAP e con un’addizionale straordinaria alle aliquote IRES, per un totale di 2,163 miliardi nel 2013 e 1,5 nel 2014. Infatti, le banche che hanno fondato BdI hanno a bilancio un valore totale di circa 5 miliardi, che passando a 7 realizza una plusvalenza tassabile. Da cui il gettito di 1.5 che compensa la mancata seconda rata IMU. Insomma, dove sta il trucco? Premesso che tecnicamente stiamo parlando di patrimonio pubblico (finanziario nella fattispecie) è assolutamente corretto -in linea teorica- dismetterlo, in questa fase storica di grave crisi economico-finanziaria. Peccato, però (e qui emerge il vero problema), che questa dismissione andrà a spesa corrente, e sarà utilizzata per coprire 1,5 mld di mancata tassazione IMU.
Questo vuol dire che, nel 2015, il governo dovrà esercitare altra finanza creativa per trovare ulteriori 1,5 mld (ovvero, imponendo nuove tasse). Il meccanismo adottato fa sì che lo Stato dismetterà 7 mld di riserve per monetizzare “cash” solo 1,5 mld (la differenza, quindi, andrà a patrimonio delle banche). Ma il punto nodale resta il controllo delle banche da parte delle Fondazioni, queste ultime controllate dalla politica. Rifiutarsi di ricapitalizzare (come accade oggi, con il decreto BdI), equivale a mantenere il controllo a tutti i costi sulle banche stesse, invece di raccogliere capitale dal mercato. Non vi sembra una fotocopia di MPS? Ci siamo già dimenticati i “peccatucci” di Unicredit e Intesa, che si sono svenate in avventure speculative alla Lehman, e che dovrebbero essere vietate a banche commerciali, a rigor di logica?!
In effetti, prima del 27 Novembre 2013, data di pubblicazione del decreto-legge, il valore nominale delle quote della BI era risibile, ammontando alla modica cifra di soli 156.000 Euro (sic!). La bacchetta magica di Letta lo ha innalzato, in un sol colpo, a 7,5 miliardi di Euro (quasi cinquantamila volte il capitale originario!), “mediante utilizzo delle riserve statutarie”. Ecco, quindi, che -altrettanto magicamente- alle banche private che detengono le quote di BdI vengono -di fatto- “regalati” miliardi di Euro, presi dalle riserve della banca stessa (ad esempio, la quota di Unicredit vale oggi oltre 1,6 miliardi). Inoltre, dato che il decreto (con le modifiche in corso) stabilisce un limite massimo del 3% alle partecipazioni, Banca Intesa e Unicredit monetizzeranno la gran parte delle loro partecipazioni, incassando rispettivamente almeno 2 e 1,4 miliardi cash (se non vendessero a terzi, a comprare sarà la BI stessa, appunto attingendo alle sue riserve).
Da una prima stima, le quote in eccesso (Intesa, circa il 27%; UniCredit, circa il 19%; Generali e Carisbo, circa il 3% ciascuna; l’INPS, il 2%; e altre in percentuali minori), saranno obbligatoriamente messe in vendita, presumibilmente ai nuovi valori, e determineranno flussi reali di cassa per poco meno di 4 miliardi d’euro complessivi. Se le banche incontrassero difficoltà di collocazione delle azioni (a 20.000€ cadauna) sul mercato, è previsto un meccanismo così detto di “buyback” (prima acquisto, e poi rivendo, in questo caso entro i successivi 12 mesi, a un valore non inferiore a quello di acquisto), da parte di BdI, per offrire un ulteriore aiutino alle nostre banche. Comunque sia, da questa partita di giro gli attuali azionisti escono sicuramente avvantaggiati in chiave patrimoniale. Unica consolazione: lo Stato, sotto il profilo fiscale, ne beneficia sotto due aspetti. In primis, incassa subito il 12% della rivalutazione delle quote (sui 7,5 miliardi al netto degli originari 156.000 euro). In secondo luogo, incamererà -in seguito- una tassazione sulle plusvalenze, derivanti dalle cessioni delle quote. Basterà questo Letta-artifizio per irrobustire il nostro sistema bancario, allargando il credito alle imprese?
Salomonicamente, chi vivrà, vedrà!
Di Maurizio Bonanni