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Nov 19

Notturno di Donna con Ospiti, di Maurizio Bonanni

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modificata   Conoscevate gli incubi di una casalinga di periferia? No? Ebbene, se volete rimediare, non vi resta che assistere allo spettacolo “Notturno di donna con ospiti”, in scena alla Sala Umberto di Roma, che ha come protagonista assoluta la bravissima Giuliana De Sio, diretta da Enrico Maria Lamanna, su testo di Annibale Ruccello. Il dramma (perché di ciò si tratta!), travestito da farsa semicomica, è “vociato”, gridato e disseminato di mottetti, epiteti e modi di dire, apostrofati nel più stretto dialetto napoletano. Esemplare la scenografia, articolata come una casa di bambola, per bambine adulte, in cui si giocano, sulla falsa profondità, i volumi di un piano superiore, di una cucina tinello, di una veranda giardino e di un gigantesco armadio, modello “Stargate”, dove le rappresentazioni del passato irrompono sulla scena incombente, livide come un mare di petrolio, che uccide le alghe nutrienti del fondale.   Protagonista incontrastata: la depressione ebete di Lei, Adriana (Giuliana de Sio), madre di due bimbi e in attesa di un terzo figlio dal marito Michele, guardia notturna. La scena inizia con la narrazione rassegnata di un menage routinario e monotono, con Lei che prepara una cena al sacco per lui, colto mentre scende dalla scala indossando un asciugamano verde alla vita, e tenendo nella mano un altro, più piccolo, dello stesso colore. Qualcosa, d’istinto, ci suggerisce di prendere accuratamente nota di questo dettaglio. Poi, assistiamo, sinceramente infastiditi (effetto voluto, e accuratamente studiato nei minimi particolari, quest’ultimo!) a effimeri tentativi di matrimonialissima aggressione sessuale, da parte di lui, puntualmente respinto da una moglie con scarse voglie, e poca fantasia erotica. Immediatamente dopo l’uscita di scena di Michele, tra scenette esilaranti di un telecomando duro a obbedire alle dita nevrotiche e intolleranti di Lei, e una preliminare, doverosa telefonata disperante a una madre tiranna, inizia il racconto notturno.   La notte, si sa, è la dea bendata dei rapaci notturni, animali e umani, che arrivano ora silenziosi, ora concitati, aggressivi e urlanti insulti di dolore. E Adriana, Caronte di se stessa, anziché blindarsi in casa e chiedere aiuto, mano a mano apre la porta-giardino e quella di casa a figure apostatiche, che vanno a erodere fin dalle fondamenta il suo essere di donna fedele e madre amorosa. Perché, Noi siamo “anche” il nostro Doppio, che non guarisce mai dalle ferite profonde di un passato che non ci lascia, come il morto che si trascina a fondo il vivo, nelle sue tenebre. Così, alla prima apparizione di una vecchia, odiatissima e peripatetica compagna di scuola, tanto dissoluta quanto volgare, se ne aggiungono, man mano, altre, come quelle di due uomini, di cui l’ultimo è Sandro, un vecchio amore del passato, al quale Adriana concesse il suo fiore più bello, per ritrovarsi, poi, incinta e costretta ad abortire da una madre megera, onnipresente e sentimentalmente onnivora.   Come un diapason che cresce sempre più di intensità, alle toccate successive e rapide, ecco addensarsi l’effetto risonanza di un’Adriana, doppio di se stessa, che si lascia andare all’alcool e si ubriaca senza ritegno: proprio lei, praticamente astemia nella vita ordinaria. E così, seguendo una danza rituale, che scioglie nella perversione i freni inibitori di un’intera vita, la protagonista si abbandona lasciva tra le braccia sconosciute di uomini, che praticano il tradimento coniugale plateale, sotto gli occhi delle loro mogli, che fanno altrettanto. Così, i vestiti vanno e vengono, con le due attrici avvolte da vestaglie leggere, che lasciano intravedere il paesaggio femminile più intimo, mentre gli uomini, raggiunti a sorpresa da Michele, tornato anzitempo nel cuore della notte, fanno altrettanto, sempre avvolti negli stessi asciugami verdi dell’inizio della rappresentazione. Le scene sono come raggrumate, attorno agli ospiti inattesi, che siedono tutti assieme attorno al tavolo del tinello, per interminabili partite a poker e bevute a volontà.   Poi, a sorpresa, folgoranti fermo-scena, dove lo spazio del giardino diventa un ambiente familiare della casa d’infanzia di Adriana, in cui inizia il racconto psicanalitico del suo patologico rapporto edipico con il padre (il bravissimo Gino Curcione), tiranneggiato da una moglie orrenda -interpretata dallo stesso Curcione- , affetta da una pesante zoppia, e con la figlia che, nel ricordo a occhi aperti, sogna di diventare, un giorno, la moglie di suo padre. La cabina, armadio, al contrario, si apre anch’essa, a tratti, sulla camera da letto della madre, con un balcone fiorito antistante. E, anche in questo caso, la De Sio, l’autore e il regista non risparmiano i propri mezzi espressivi, per descriverci l’orrore di una costrizione psichica, che schiavizza la figlia unica, tenendola stretta alla catena del ricatto affettivo, del senso di colpa perenne, per essere stata una figlia debosciata, tormento e rovina di tutte le aspirazioni materne.   La ruota della perversione continua a girare così forte, che a un certo punto ci si rende conto di come quei fantasmi viventi stiano per annichilire l’essere umano che li ha pensati e prodotti: vediamo comparire nella mani di Adriana la pistola d’ordinanza di Michele e seminare il panico e la fuga di tutti quei personaggi improbabili e disgustosi. Poi, il finale a sorpresa. In cui, finalmente, Lei regredisce, con un atto di una follia estrema, allo stato infantile, per ricongiungersi, vestita da sposa, all’amatissimo padre defunto. In fondo, non è la cronaca di tutti i giorni a dirci come tutto ciò sia realisticamente “possibile”? Da vedere, senz’altro, per un pubblico rigorosamente adulto. Di Maurizio Bonanni
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