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Ott 05

UNA TIGRE A BAGDAD. Di Maurizio Bonanni

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  Un Elisir per l'Eliseo, che rinasce a nuova vita con la gestione di Luca Barbareschi. Ed è proprio lui a iniziare la stagione 2015/16 con una vibrazione corale di grande fascino, drammaticità e attualità. Dal 2 ottobre, infatti, è in scena "Una tigre del Bengala allo Zoo di Bagdad", tratto dall'opera dell'americano Rajiv Joseph candidato al Premio Pulitzer 2010. Si tratta di un teatro che intende operare a cuore aperto una società occidentale devastata dalle sue contraddizioni interne, espiantando dai campi di battaglia al palcoscenico quell'emotività generazionale implosa e disintegratasi in Iraq, a seguito dell'invasione americana del 2003. Perché la guerra e la tirannia sanguinaria sono mostri sistemici privi di giudici e inibizioni, sembra voler gridare Rajiv Joseph dalla feritoia del suo bunker intellettuale. Il racconto è una dolorosa escavazione di un vissuto militare assolutamente tragico, una ripetizione di fatto di quello già portato alla luce, al pari di una piramide sepolta, da film epocali come "il Cacciatore" e "Platoon" che raccontavano le atrocità della guerra del Vietnam. Solo che qui le dune e le sabbie del deserto hanno preso il posto della jungla vitale e infida, mentre i volti feroci e gli occhi iniettati di sangue dei miliziani sunniti e di soldati irakeni allo sbando si giustappongono e annullano il ricordo delle divise seriali e delle espressioni anonime dei vietcong, inquadrati nell'esercito regolare di Giap. Nella narrazione dei fatti realmente accaduti prende forma la dannazione satrapica di un regime spietato, come quello di Saddam Hussein, macchiatosi di orrendi delitti contro un popolo indifeso: il suo! Ed è attraverso il fantasma di uno dei figli di Saddam, Udai -che si aggira nell'Ade coperto di sangue e con la testa del fratello Qusai chiusa in una busta di plastica-, che lo spettatore viene a conoscenza dell'incarnazione stessa della violenza sadica, gratuita e impunita che nutriva il clima di terrore instaurato dal regime del dittatore. Udai il carnefice, capace di inaudite sevizie nei confronti di creature del tutto innocenti, recise barbaramente nel fiore della vita, in modo del tutto gratuito, senza una spiegazione. Così, a confronto, il Barbareschi-belva, che dà sembianze antropomorfe all'unica tigre del Bengala -sopravvissuta alla strage di tutti gli altri ospiti dello zoo, da parte dei soldati americani-, regala tesori insospettabili di umanità, eticità e sensibilità! Il tutto nasce da un episodio realmente accaduto, ai tempi dell'occupazione dell'Iraq: la tigre superstite, imprigionata nella sua gabbia di ferro, amputa con un morso la mano di uno dei due soldati di guardia allo zoo. Nel racconto di Rajiv, l'altro militare la uccide (venendo, poi, perseguitato fino alla follia dal fantasma di quella stessa belva) impugnando una pistola laminata in oro, appartenuta a Udai. Immediatamente dopo, l'autore immagina che il fantasma della tigre vaghi nel post-mortem alla ricerca di Dio e del suo significato/incarnazione. E quell'Eden fantasmatico avrà come sfondo un immaginario giardino di Bagdad, con alte siepi a forma di animali rari (giraffe ed elefanti, in particolare) intagliate da un prodigioso giardiniere, che sarà l'unico dei protagonisti del dramma a sopravvivere alla mattanza della follia circostante. Grazie alla grande bravura degli attori giovani che fanno da corona al "Re Bestia", la narrazione ricostruisce l'arbitrio sostanziale che fa da sfondo all'occupazione militare di una terra straniera. Cosicché la violenza dei dialoghi, l'aggressività molto al di sopra delle righe dei personaggi più problematici, la cupidigia e la trasgressione che caratterizzano tutti i teatri di guerra danno la sensazione di essere sommersi e travolti da un impetuoso, inarrestabile fiume di limo rosso sangue, che toglie il respiro e disarticola lo spirito. Il verismo dello spettacolo (oltre alla meticolosa cura delle divise e del resto dei costumi) è portato alle estreme conseguenze da dialoghi interamente in arabo, tradotti dal giardiniere del boia Usai, riciclatosi in interprete degli occupanti per sopravvivere. Il palcoscenico, poi, è pavimentato con uno strato di sabbia grigiastra, dello stesso colore impastato degli edifici e delle strade distrutti dalle bombe, nei cui detriti si aggirano fantasmi di bimbi dilaniati, con gli occhi fuori dalle orbite. Ed è quello di una bambina senza voce né volto, evocato dalla "Bestia", a chiedersi "Dio dov'è?", e perché non si prenda cura del suo giardino incantato, coperto di polvere e con le sculture d'erba amputate. Poi, sul finale, l'evocazione del paradosso: il fantasma-tigre, pur inondato di onniscienza, decide che l'unica cosa giusta da fare sia il ritorno alle origini. Ovvero: se affamata, sbranare il primo essere vivente che le capiti a tiro. Non più la violenza fine a se stessa delle belve umane, quindi, ma solo un sano e obiettivo rispetto delle leggi di natura! Spettacolo bello, urticante e denso di messaggi in bottiglia, tutti da recepire. Di Maurizio Bonanni
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