Sono passati esattamente dieci anni da quando venne pubblicato sulla prestigiosa rivista “New England Journal of Medicine” un articolo dal titolo “Etiquette-based medicine“. L’articolo scientifico venne ripreso a livello internazionale anche dalla stampa non specializzata ed ebbe una grande diffusione non solo in ambito sanitario e tra gli addetti ai lavori.
Michael W. Kahn, psichiatra di Boston, autore dell’articolo partiva da un assunto disarmante nella sua semplicità: Patients ideally deserve to have a compassionate doctor, but might they be satisfied with one who is simply well-behaved?
Si rimase stupiti all’epoca perché al di là di ogni valutazione sulla efficacia o meno delle varie tecniche di comunicazione, al di là anche di ogni accademica dissertazione sulla qualità del rapporto medico-paziente, veniva posto l’accento sulla buona educazione e sul timore che dal declino della stessa all’interno della società potessero derivare comportamenti che dapprima avrebbero minato il rapporto fiduciario e di empatia con la categoria medica ed in seguito addirittura avrebbero potuto innescare fenomeni di conflittualità che, l’esperienza insegna, hanno realmente prodotto negli anni successivi un esplodere di atti di violenza a carico degli operatori sanitari.
Eppure l’autore dell’articolo partiva dalla semplice constatazione, almeno nella percezione dei pazienti, di una mancanza di educazione da parte dei medici nell’approccio comunicativo. Infatti l’autore sosteneva, per la sua soggettiva e contestuale esperienza di medico e di paziente, che i pazienti fossero, almeno apparentemente, più attenti all’approccio rispettoso del medico, rispetto alla sua capacità di porsi in maniera empatica col malato. E che il problema fosse già presente almeno nella fase embrionale lo dimostra la discussione, avviata sin dai primi anni novanta all’interno del mondo accademico statunitense, dalla quale emergeva la consapevolezza che tra i fattori capaci di influenzare la formazione del medico rientrava a pieno titolo il costante declino del senso di responsabilità civica e delle buone maniere negli Usa.
Un problema quindi caratteristico della società occidentale affetta ormai da un carico di pressapochismo, di superficialità, di giudizio sommario che sembra avere permeato molti aspetti del vivere collettivo, dalla politica all’ambito lavorativo, per interessare anche i piccoli gesti della daily routine come, si dissertava qui su “L’Opinione” il rituale della colazione al bar con il non ricevibile “che prendi cara?”.
Maleducazione, impazienza, insensibilità e scorrettezza ormai si rincorrono e traggono potenziamento dall’alterato squilibrio del binomio doveri-diritti sempre più proteso in favore di quest’ultimo. In ambito sanitario il diritto da parte della persona malata di esercitare un pur legittimo ambito di autonomia decisionale nei rapporti col medico, la presenza di aspettative sempre maggiori in termini di salute personale, lo stress degli operatori ed il loro numero sempre più ridotto unitamente agli aumentati carichi di lavoro, rendono ragione del prevalere di atteggiamenti di intolleranza, di franca ostilità e di violenza come dimostrano le cronache quotidiane in merito soprattutto alle dinamiche dei Pronto soccorso dei nostri ospedali.
Non è semplice trovare una soluzione a tutto questo. Occorre agire su aspetti strutturali ed organizzativi ma anche, e non in maniera secondaria, sulla capacità di apprendere e comprendere emozioni e fragilità implementando percorsi di umanizzazione e coinvolgendo le associazioni di volontariato. E se intanto iniziassimo rimettendo l’insegnamento della educazione civica nei corsi scolastici delle scuole dell’obbligo?
@vanessaseffer
Nov 21