Sanità privata e sanità pubblica, ne parla Jessica FaroniUna struttura sanitaria accreditata è una struttura privata che ha stipulato una convenzione con il Sistema sanitario nazionale (Ssn), dunque eroga le prestazioni sanitarie chiedendo al cittadino il solo pagamento del ticket. Ma come fa una struttura privata ad accreditarsi? È l’autorità sanitaria delle singole regioni ad individuare le strutture che secondo loro sono in grado di garantire il livelli essenziali di assistenza, di valutare l’idoneità delle stesse, di assicurarsi che siano qualificate e di accertarsi dell’efficacia e dell’appropriatezza dei risultati, fissando il volume massimo delle prestazioni da rendere nell’ambito della competenza territoriale della medesima azienda sanitaria locale. Chiedo a Jessica Faroni, medico-chirurgo, neurologo, riconfermata presidente dell’Associazione italiana ospedalità privata Lazio (Aiop), manager sanitario e a capo del Gruppo Ini (Istituto neuro-traumatologico italiano) presente con dieci strutture accreditate nel Ssn nel Lazio e in Abruzzo, di farci comprendere meglio quali rapporti ci siano effettivamente fra il pubblico e il privato convenzionato, o meglio, accreditato. Che differenza c’è fra l’ospedale pubblico e il privato accreditato? Di fatto la sanità privata accreditata è una sanità pubblica con tutti quanti i doveri del pubblico, con la differenza che la proprietà è del privato. I criteri qualitativi devono essere gli stessi, perché si fornisce un servizio pubblico. La legge è uguale perché è sempre Sistema sanitario nazionale (Ssn). La differenza consiste nella proprietà: una è pubblica e l’altra è privata. Che cosa funziona davvero e che cosa non funziona sia nell’ospedale pubblico che nel privato accreditato? Entrambi risentiamo fortemente del problema del contratto di lavoro, poiché abbiamo i contratti nazionali. Il fatto è che è poco prevista sia la meritocrazia che il licenziamento di persone che effettivamente non ci dovrebbero stare. Quindi siamo costretti ad un ricambio molto lento e soprattutto a non usufruire di nuove risorse, uno dei motivi per cui assistiamo alla fuga dei cervelli dal nostro Paese. Noi non possiamo licenziare una persona su due piedi. Indubbiamente per noi è più facile gestire una struttura con trecento persone piuttosto che di 1.800, però siamo sottoposti esattamente alla stessa problematica. E il personale come viene selezionato? Esattamente come fa il pubblico. Tramite concorso. Poiché le figure che devono stare sia nel pubblico che nell’accreditato sono le stesse, con gli stessi titoli, con gli stessi curricula. Vi capita, soprattutto fra il personale infermieristico, di dover attingere dall’estero? Ancora qui nel Lazio questo tipo di utilizzo di lavoro è poco sviluppato, facciamo più uso delle cooperative. Nelle cooperative può capitare che qualcuno dell’estero ci sia. Ma non è un fenomeno così sviluppato, non come in alcuni posti del nord. Ci sono troppi sprechi nel pubblico, nelle analisi, negli esami diagnostici. Da noi va esattamente come nel pubblico. Perché essendo pagati noi con l’impegnativa quindi con la prescrizione, risentiamo al pari del pubblico. Tant’è che abbiamo anche noi le liste d’attesa lunghissime. E del fatto che c’è ad esempio un utilizzo sbagliato della medicina difensiva. Infatti questa oggi è il costo maggiore per l’Italia, in quanto si preferisce fare più analisi, visto poi il contenzioso che può scaturire da qualsiasi paziente. Per cui diciamo che è una protezione del medico. E anche questo crea liste d’attesa. Un medico di base che chiede una visita urgente, spesso lo fa perché suscettibile di pressioni da parte di un parente. Ci andiamo di mezzo tutti: medici di base, pubblico, privato accreditato. Poi noi, tra l’altro, abbiamo un budget e più di tanto non possiamo fare. Così le liste si allungano. Le liste d’attesa sono un problema molto serio. Rappresentano uno dei motivi che scatenano le aggressioni contro i medici e gli operatori sanitari, sempre più frequenti. Come si può risolvere il problema? Bacchetta magica a parte, ci sarebbero due rivoluzioni del sistema a mio parere. Innanzitutto, la richiesta dovrebbe essere fatta secondo altri criteri, non secondo pressioni o medicina difensiva, ma sotto la reale esigenza che ha il paziente. In secondo luogo, bisognerebbe investire un po’. Ad esempio, in America sono di uso frequente i referral, specialisti che “h24” stabiliscono se i pazienti debbano essere visitati o meno, facendo una selezione a monte. Nei provvedimenti che sono stati presi di aumentare le ore di lavoro e le aperture degli ambulatori, più si crea offerta e più le liste si allungano. Se io aprissi gli ambulatori delle cliniche e avessi libertà di budget, giorno e notte per tutta la settimana, li riempirei. Che cosa manca alla struttura privata accreditata per sostituire appieno quella pubblica? Non si possono sostituire. Non può esistere pubblico senza privato, né privato senza pubblico. È un lavoro assolutamente di supporto e complementare. È vero che ci sono esempi di strutture private come il San Raffaele di Milano che sono più che autonome e funzionano bene. Ma è anche vero che l’Italia è fatta da venti regioni che hanno leggi diverse. Faccio un esempio, qui nel Lazio è vero che ci sono molti privati ma tante specialistiche non le possiamo fare, e non potendole fare dobbiamo essere per forza di supporto a tutto quel mondo che ha quella specialistica che fa soltanto l’ospedale. Invece l’ospedale cattolico funziona meglio della struttura pubblica o del privato accreditato? Anche lì hanno gli stessi problemi nostri. Ma è chiaro il “Gemelli” ha un potere contrattuale diverso. La struttura privata accreditata come si muove con i bambini e gli anziani? Il 44 per cento della sanità privata accreditata fornisce cure di supporto alle categorie più deboli. Gran parte delle Rsa e gran parte dei bambini ex articolo 26 fanno capo al privato convenzionato e questo, è fondamentale, con costi minori rispetto al pubblico. Va capito che noi siamo uno Stato che investe poco in sanità perché siamo molto bravi. Sia nel pubblico che nel privato. Perciò parlo di complementarità. Se l’Umberto I si occupa di un’appendicite, un’altra struttura convenzionata ne fa tre, perché riusciamo di più a contenere i costi dando la stessa qualità. Se questo lo si pone sull’assistenza territoriale e sulle categorie deboli è evidente che lo Stato non si può permettere una spesa così grande su una popolazione debole che sta crescendo. Noi siamo il Paese più vecchio d’Europa. Non possiamo fare un investimento che poi non ci possiamo permettere. Per cui deve subentrare il privato, che riuscendo a lavorare con costi contenuti, può dare una qualità eccezionale sia nel pubblico che nel privato. Lo dice pure la relazione di Bloomberg, siamo tra i migliori al mondo utilizzando la metà dei soldi degli altri Paesi. Qual è lo stretto rapporto pubblico-privato? In realtà, sia nel pubblico che nel privato curiamo migliaia di persone e ciò avviene in perfetta armonia. Noi abbiamo la funzione di svuotare gli ospedali da tutto quello che è il cronico, ce lo prendiamo e questo avviene tramite fax, tra ospedali e strutture. Succede continuamente nel quotidiano, per migliaia di persone. Il paziente, nel momento in cui viene ricoverato in ospedale, viene curato a 360 gradi sia dal pubblico che dal privato. Per queste comunicazioni usate ancora il fax? Si, per essere più sicuri e lasciarne traccia. Se il Signor Rossi ha bisogno di essere spostato domattina, la caposala invia un fax a tutte le strutture private dei dintorni nella notte e bisogna che la mattina sia già stato trovato il posto. Quindi o c’è la telefonata fra i primari delle strutture o la richiesta via fax per cui rimane sempre una traccia. Il fax rende proprio l’idea del fatto pratico del rapporto che si innesca fra strutture. @vanessaseffer