Dic 15
GIOVANI MUSULMANI IN ITALIA: UN’INTEGRAZIONE POSSIBILE?
Interessante presentazione della ricerca “G2: una generazione orgogliosa” a cura del prof. Mario Abis al Centro Studi Americani di Roma, seguita da una discussione con un professore dell’Università di Padova, Renzo Guolo, e dal direttore di Reset, Giancarlo Bosetti. A seguire l’attesa tavola rotonda presieduta da Giuliano Amato, Presidente del Centro Studi Americani, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Federico Ghizzoni Presidente di Unicredit, Giorgia Meloni e Maurizio Sacconi.
Vale la pena riportare il pensiero di ciascuno sull’argomento spinoso dell’immigrazione ma di più dell’integrazione, parola che sembra essere spiacevole per i giovani di seconda generazione che vivono nel nostro Paese e che percepiscono come una mancanza, un’amputazione, qualcosa da colmare.
Mi è gradito sottolineare la presenza di una donna musulmana nella moderazione delle due parti del pomeriggio, quella con i docenti e quella con i politici, la bella dott.ssa Karima Moual, che ha firmato il significativo filmato sulle giovani musulmane che vivono in Italia, di apertura ai lavori dell’incontro.
La parola che apre il filmato è HARAM: PECCATO. La giovane intervistata da Karima Moual è andata via di casa, fuma, vive la sua vita rispettando se stessa ma sente di aver tradito la sua cultura e la cultura di suo padre che non la riconosce più come figlia. Lei ritiene di vivere nel “peccato” secondo la sua religione, perché non vuole sposarsi ma vuole lavorare ed essere libera.
Il prof. Abis ha indagato il mondo musulmano in Italia, riscontrando nei giovani di seconda generazione, cioè nati e cresciuti in Italia da genitori che sono venuti nel nostro Paese precedentemente, per lavoro o motivi socio-politici, un modello di interculturalità basata sulla reciprocità e sulla doppia appartenenza. La domanda di integrazione è una richiesta di rispetto della frammistione fra la cultura italiana, occidentale con quella della propria tradizione familiare. L’orgoglio di essere portatori di una cultura da conservare e da valorizzare, perché in questo caso la doppia appartenenza è un valore e una ricchezza, per loro e per i nostri figli.
La Primavera Araba, o il sogno di essa, è il prodotto della percezione che si è avuto del nostro Paese. Invece si è trovato, per chi ci è arrivato, un Paese in declino, chiuso, diffidente, mentre lo si pensava ricco e aperto. L’11 settembre è sentito come il momento cruciale di passaggio per questo cambiamento di rotta, il sostanziale momento di cambiamento dell’opinione, da dove inizia l’indebolimento valoriale. Gli italiani ignorano cosa sia l’Islam, la complessità del mondo islamico, le differenze che ci sono all’interno di esso. Il ruolo negativo che giocano i media quando semplificano ed esibiscono i fatti estremi, mostrando gli aspetti ignoranti che suscitano l’indifferenza o il rifiuto. Questo a sua volta nei musulmani che sono da noi provoca un’altra reazione: “non mi vuoi conoscere, allora io mi chiudo sempre di più in me stesso: recupero la mia identità islamica associandomi con i miei simili soltanto, come ripiego”.
La pratica religiosa è un altro momento di identità che soddisfa questo ruolo al posto della famiglia o della comunità se queste sono carenti, come fanno le associazioni.
G. Fini ha precisato che la politica italiana dovrebbe volare un po’ più alto, che in 6 anni il fenomeno degli emigrati nel nostro Paese è raddoppiato da 400mila a oltre 900mila unità, e che 572mila ragazzi sono nati in Italia fra questi. Parlare di immigrazione o di semplice convivenza significa a questo punto non comprendere la trasformazione che è in atto e a cui siamo chiamati, e la componente musulmana è notevole nella nostra società. L’interazione culturale e la mediazione è necessaria. I giovani di seconda generazione che vivono nel nostro Paese sentono risuonare la parola “integrazione” come negativa perché sembra assumere una perdita di identità, perché loro si formano nel nostro Paese che è lo stesso dove ci s’interroga su come affrontare questo fenomeno. Il fenomeno dell’emigrazione è necessario per favorire il fabbisogno dell’Economia e costruire la società del futuro. I ragazzi sono insoddisfatti perché senza risposte da parte della società ospitante. Questi ragazzi non vedranno mai l’Italia come la Patria intesa in senso stretto, cioè come la terra dei loro padri, ma come la Nazione dove si condividono i valori, ecco la cittadinanza attiva ed ecco la ricchezza che può essere condivisa dagli italiani. E’ necessario però un superamento delle differenze e dei pregiudizi, le fobìe allontanano tutto questo.
Per Bosetti l’obiettivo di Reset è promuovere il dialogo e la cultura del dialogo, nel rispetto dei diritti di ciascun individuo, per una maggiore ed efficace conoscenza tra le diverse culture basata sulla dignità, l’uguaglianza, il rispetto, senza manipolazioni e discriminazioni. D’altronde la prima generazione di emigrati ha trovato da noi una politica in crescita, la seconda generazione una politica in difficoltà e in tensione. Quindi non più un passaggio verso l’Eldorado, ma dalla disperazione all’incertezza assoluta. Anche loro adesso chiedono soluzioni a questa situazione triste che stiamo vivendo nel nostro Paese e in Europa. Occorre introdurre più pratiche interculturali, i ragazzi stranieri e non apprezzano moltissimo la conoscenza di nuove atmosfere.
Per Giorgia Meloni la questione si iscrive perfettamente nella situazione giovanile italiana. Perché i giovani percepiscono con senso d’inferiorità la parola “integrazione”? La sua idea è la costruzione di un’appartenenza armonica con il Paese di provenienza o d’origine. Il ministro non si sente vicina alla cultura della tolleranza, preferisce la cultura del “rispetto”. Si tollera qualcosa che si sopporta. Il rispetto presuppone la valorizzazione dell’identità fiera e forte, insieme allora si può costruire qualcosa di straordinario. Non si deve rinunciare a ciò che si è per dialogare, come al crocifisso o al velo. “Quando l’uomo pensa Dio sorride” il proverbio ebraico, ricordato dal ministro, che evidenzia quanto linguaggio stereotipato nei confronti degli immigrati e non solo, come il pensiero del neopapà N. Sarkosy: “l’Italia è di chi la ama”. C’è di meglio andando a scomodare Renan: “la Nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno”.
Maurizio Sacconi ha parlato dell’Arcivescovo di Canterbury che disse di accogliere la Scozia per il multiculturalismo laico. Poi si è soffermato sulla Cina, che considera l’Italia suo partner per le politiche sociali (previdenza..). “Noi favoriamo la libertà di religione per evitare le patologie in nome delle quali creiamo un martirio religioso che non è utile – ha detto Sacconi – si chiede la conoscenza di usi ed educazione civica, non un esame di diritto pubblico. I cinesi cucinano h24, non è facile vivere con loro in un condominio”.
Federico Ghizzoni, Presidente di Unicredit, spiegando che fra gli immigrati che hanno il conto corrente da loro il 75% hanno il “Conto TU” e i migliori clienti sono gli ucraini, certamente migliori degli italiani. Nelle agenzìe tradizionali la quota degli stranieri è in forte crescita e nel 2015 ne sono previsti il 15% contro l’attuale 11%. E’ un motore per la crescita di un Paese la presenza degli immigrati ed anche una grande opportunità. Ci sono certamente delle criticità, questa va regolata. Cosa può fare un’azienda per favorire questo processo? Unicredit è presente in 50 Paesi nel mondo. In questi Paesi 25mila dipendenti sono musulmani. Due donne tra questi sono top manager, di cui una pakistana. 16 executive, fra cui 7 di nazionalità diverse. Una presenza etnica importante. Si gestisce nel rispetto delle radici locali. A capo delle banche si cerca sempre di inserire del personale locale, che sia in grado di avere rapporti privilegiati con la gente del luogo. Questo dà i suoi frutti. Gli altri Paesi e le altre banche non lo fanno. I francesi a capo delle loro agenzìe mettono solo direttori francesi, i tedeschi solo tedeschi, gli americani solo americani.
Il prof. Renzo Guolo ci ha ricordato che in Italia non abbiamo nessun modello di assimilazione come in Germania, in Francia o in Spagna. Siamo un Paese debolissimo che non ha niente da proporre. Senza cittadinanza come si può proporre integrazione? Ma anche la cittadinanza non si può dare indiscriminatamente. Ci vuole lealtà politica e poi la scuola. La scuola italiana vive sulla vocazione degli insegnanti che senza programmi e scarsamente pagati, con pochi mezzi, senza risorse, devono supplire alla funzione dello Stato, accogliendo nelle classi questi ragazzi che a malapena certe volte parlano qualche parola di italiano. Ci sono altri mezzi chiaramente come internet, Al Jazeera per socializzare, oltre alla scuola, luoghi di culto che hanno questa funzione di agenzìa di socializzazione. Quindi urge un rafforzamento della scuola pubblica. Inoltre sarebbe bene che facessimo emergere le personalità islamiche di riferimento con cui dialogare e confrontarci, per indicarci i meccanismi dell’integrazione e del dialogo, piuttosto che tendere alla ghettizzazione per paura e per apparente disinteresse.
D’Alema ha parlato di imbarbarimento più che di decadimento valoriale. “Abbiamo un disperato bisogno di immigrati. La paura genera pericoli. Il 23 ottobre 2011 è un giorno importante per la Tunisia, ci sono le elezioni per un Paese democratico. In tutti i giorni precedenti a questo evento i loro politici sono venuti da noi per fare propaganda e questa è stata un’ottima occasione per fare politica estera. Non siamo riusciti a fare una legge per la libertà religiosa. La politica dell’immigrazione è difficile, ma le politiche etnocentriche sono in declino dovunque nel mondo. Un’assunzione di responsabilità è fondamentale. Regole comuni europee per non mettere a rischio l’equilibrio, questo è giusto, altre cose dette per me non sono giuste. Perché dobbiamo rendere ostile la presenza di questi ragazzi che sono una risorsa fondamentale per il nostro Paese”.
La verità è che nessun Paese europeo è arretrato quanto l’Italia in tema di immigrazione. Non si può negare che la questione vada discussa con spirito aperto e proiettato al futuro, studiando delle regole e senza chiuderci nelle incomprensioni. Partire poi dalla scuola è fondamentale: i ragazzi sono più pronti degli adulti ad accogliere ed accettare i cambiamenti della società e non hanno paura. Per un processo virtuoso di integrazione civile ci vuole reciproca comprensione e rispetto. Se un ragazzo di 14 anni si percepisce diverso perché non è cittadino, è ovvio che può sentirsi attratto da richiami negativi, anche se poi si ritrova a tifare per la Roma, allora tocca a noi, alla scuola, ai suoi insegnanti e a chi deve mettere in condizioni la scuola di avere i mezzi sufficienti, di far sentire il giovane accolto, parte di un gruppo, inserito e protetto.
Vanessa Seffer