Lug 01
ISTANBUL COME ROMA, di Maurizio Bonanni
Memorie di un viaggiatore.. Sono ritornato dalla Turchia una settimana prima che le folle anti-Erdogan si radunassero rumorose al Gezi Park e, poi, in altre aree del Paese fondato da Ataturk. E che cosa ho visto, percorrendo lo spazio turco da Nord a Sud, circa un mese fa? Innanzitutto, una megalopoli, Istanbul, che rigurgita di traffico come un dragone cinese, le cui minuscole squame di lamiera si allineano, lente e nervose, lungo decine di km di superstrade urbane, che accarezzano, senza far troppo rumore, le affollate coste del Mar di Marmara. All’interno di questo anello di asfalto, il traffico nei vecchi quartieri rimane quello di sempre, impossibile da domare, frenetico e caotico, intrecciato nelle sue strade strette e ammalorate di auto in sosta selvaggia. Da una parte e dall’altra dei due continenti affacciati, Europa e Asia -collegati da megaponti sospesi, i cui giganteschi tentacoli si illuminano di luci cangianti nel bagliore della notte- i pendolari turchi si alzano alle prime luci dell’alba, per essere in città all’apertura degli uffici. Eppure, la benzina costa più di due euro al litro (la più cara d’Europa) e il salario medio è pari a meno di un terzo di quello medio dell’Europa Occidentale. Allora, come stanno in piedi i suoi cittadini? Semplicemente, lavorando come.. “turchi”, magari con un carico fiscale pari alla metà del nostro!
Se il traffico uccide e si porta via, nelle lunghe attese, una porzione non indifferente della vita media dei residenti, un altro mostro divora tutto ciò che incontra sul suo cammino: la speculazione edilizia. Le aree urbane edificabili sono state disseminate di grattacieli e di gigantesche costruzioni moderne, residenziali e del terziario avanzato, che ricordano l’eredità di “Re Mitterand”, con la sua impronta imperiale, impressa nelle fondamenta del quartiere iper moderno della Défence, orrendo mostro urbano parigino di vetro, ferro e cemento. Nulla sembra distinguere quella Parigi dalla nuova Istanbul, la cui forzata modernità, al pari delle folli costruzioni di Ceasescu, rimanda un’eco cupa e trista dello sconfinato Ego dei moderni faraoni, tra i quali Erdogan arriva buon ultimo. E i vecchi quartieri vivono con angoscia l’assedio di un’economia malata, che ha sete di sviluppo, divorando il territorio degli avi, dove ancora si incontrano il vecchio e nuovo delle donne turche nei lunghi abiti tradizionali e i veli di stoffa pesante, alle quali si alternano giovani vestite all’occidentale e, più di recente, quelle che certe voci da dentro chiamano le “ragne”, richiuse nei loro chador neri, in ossequio alla ritrovata “libertà” religiosa.
Così, l’Istanbul delle mille contraddizioni scorre sotto lo sguardo di chi la osserva con meraviglia e stupore, analizzando lo sforzo straordinario di normalità, nel cercare di tenere unite le diverse etnie e culture che in lei convivono. La stretta cintura verde, che fa da cuscinetto precario tra le autostrade urbane e la costiera (una sorta di Lungotevere a quota zero) si anima -a ogni ora della giornata- con piccoli gruppi di famiglie curde immigrate, che preparano carne alla griglia sui prati trattati con cura certosina, mentre un mare di bambini e di adolescenti agita l’aria con grida e giochi all’aperto. E, come nell’antichità, un numero sterminato di ambulanti vende bottiglie di acqua a ogni angolo delle strade, mentre uomini-soma trainano giganteschi carrelli a due ruote, in cui si raccolgono -in grandi e luridi sacchi di iuta- plastiche e cartoni da riciclare. Già, perché, con notevole stupore, si scopre che nei quartieri vecchi e nuovi della città (come in tutta la Turchia, del resto) non esiste l’acqua potabile!
Come da noi, in Italia, è mancata del tutto la lungimiranza urbanistica, che assegna la giusta priorità alla costruzione delle infrastrutture viarie e di trasporto -indispensabili a decongestionare il traffico veicolare di superficie-, “prima” che si scateni la devastante, folle corsa della speculazione edilizia. Roma e Istanbul pagano lo stesso, tremendo prezzo alla mancanza di reti di metropolitane, in ossequio alla dittatura dei costruttori di automobili, nazionali e mondiali, che hanno da sempre confuso la libertà di movimento con la qualità della vita, infischiandosene dell’inquinamento e del rumore che uccidono, e della vita che si consuma, inutilmente, sotto la dittatura universale delle Sette Sorelle e dei tempi biblici occorrenti per spostarsi da un lato all’altro delle nostre malate megalopoli! In questo immenso catino di decine di milioni di anime intrappolate nel cemento, consolano lo sguardo -e tutti gli altri sensi- i colori e gli odori forti delle spezie, lo scintillare degli ori, delle pietre, degli argenti lavorati e la morbidezza delle stoffe, esibiti nei mille bazar, assieme alle grida di richiamo dei venditori, che parlano di un tempo antico e, speriamo immutabile.
Diverso, molto diverso, è il discorso che si svolge nel resto del vastissimo territorio interno turco, dove non v’è piccolo centro abitato che non abbia una nuova, scintillante moschea in cemento (segno tangibile della neo-islamizzazione strisciante della popolazione), mentre milioni di ettari coltivati sono ancora lavorati da una moltitudine di contadine, avvolte nei costumi tradizionali di sempre, chine sui loro raccolti, a un passo dalle nuove superstrade. A questo mondo agricolo arcaico, si contrappone un immenso apparato industriale di nuovissimo conio e insediamento, con comparti produttivi organizzati su ampi distretti (metalmeccanico, della lavorazione del legno, manifatturiero), che si estendono per centinaia di km. Segno evidente, quest’ultimo, della capacità della Turchia di Erdogan di accogliere generosamente i capitali esteri, offrendo manodopera qualificata e disciplinata, a buon mercato. Ma, se qualcuno al potere ha vagamente vaneggiato di scambiare il benessere economico con la restrizione o, addirittura, la perdita delle libertà individuali (vedi l’indebita intromissione del Governo turco, per condizionare -facendo leva sulle agevolazioni fiscali e il finanziamento pubblico-, la stampa e i media laici e liberali), ebbene, il calcolo, come dimostra la rivolta di Piazza Taksim (Istanbul) e di Piazza Tahir (Il Cairo), è totalmente infondato, grazie a Twitter e a Internet!
Di Maurizio Bonanni