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Lug 19

Un incontro finanziario, di Alessandro Bertirotti

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Alessandro Bertirotti

Non capita spesso di poter parlare con persone che hanno occupato ruoli importanti nell’ambito della società. Ancora meno possibile è parlare, di questi tempi, con un ex Direttore Generale di Banca, e nel nostro caso di una Banca come il Monte dei Paschi di Siena. Gianfranco Antognoli, ora consulente finanziario con una sua società, mi riceve nel suo studio con la tipica gentilezza di colui che è ben consapevole del proprio status, e soprattutto della propria storia professionale. Dopo i primi scambi di opinioni, affronto subito il tema dell'incontro e gli chiedo in quale direzione, secondo lui, sta andando questo nostro mondo, considerando l'Italia come parte del contesto generale, senza volermi riferire alla situazione economica nostrana. Il Dott. Antognoli, semplicemente e con chiarezza, scuotendo la testa, mi conferma che se il mondo continua a considerare il concetto di produzione economica in questi termini, si sta dirigendo ad una sorta di suicidio generale. È necessario recuperare tutti gli antecedenti “comportamentali” che hanno dato origine al mercato, alla finanza e, insomma, al commercio. Mi dice che i vecchi modelli,liberista e comunista, entrambi esasperati da comportamenti in realtà megalomani dei loro vertici, sono destinati a fallire miseramente mentre il ruolo della banche dovrà ritornare ad essere quello originario, reali “intermediari del credito”. In effetti, quando gli chiedo per quale motivo ci troviamo in questo stato di cose, oltre a rispondere, come tutti coloro che operano nel settore finanziario e bancario, che la colpa è dei famosi "derivati", conferma la mia idea circa il ruolo che, appunto, le banche hanno perso nel mondo: la funzione di intermediazione creditizia, che da sempre, nell'Occidente liberale, collega l'impresa con l'innovazione, l'industria e la circolazione di beni e servizi. Qualsiasi società umana, a qualsiasi grado di evoluzione si trovi collocata, complesso oppure semplice, vive grazie alla circolazione capillare, al suo interno, di beni e servizi che migliorano la qualità della vita quotidiana di tutti i propri membri. Quando questa circolazione cessa di esistere, si va ovviamente incontro ad un vero e proprio collasso sociale, una specie di aborto programmato, come mi è già capitato di scrivere proprio in questa rubrica. Ecco che il Dott. Antognoli mi parla di etica, come se questa parola fosse la bacchetta magica in grado di ristabilire l'antico rapporto di fiducia tra gli istituti di credito e la creatività umana che si fa impresa. Anche se egli sostiene che il grado di eticità di una banca è del tutto originale e decisamente minimo, proprio per sua definizione e per il ruolo che comunque essa occupa in questo mondo, potrebbe almeno essere costante e continuo, senza farsi abbagliare da una finanza, e da una “ingegneria finanziaria”, che speculano creando quelle difficoltà delle quali essa stessa si nutre. Porre ancora una volta al centro dello sviluppo sociale l'umanità, considerata nella sua interezza invece di valutarla per le sue caratteristiche di classe imprenditoriale o meno, significa, secondo Antognoli, tentare di ripristinare questo fondamentale rapporto di fiducia verso il futuro che qualsiasi banca che investe in impresa dovrebbe instaurare, invece di lavorare per una finanza che divide sempre di più le persone fra loro, contrapponendole le une alle altre, perché in questo processo ci guadagna molto di più anche se non produce ricchezza reale. Quando allora gli domando se esiste ancora la possibilità di cambiare l'atteggiamento delle banche, mi sembra di intravvedere nel suo viso il desiderio di credere che questo sia fattibile, anche in un prossimo futuro, ma leggo altrettanto chiaramente una sorta di sfiducia nel genere umano, almeno verso quello che si occupa di “speculazione” finanziaria. Forse dovremmo attendere qualcosa di più macroscopico per accorgerci che ci stiamo distruggendo, e spero che non sia l'attesa della distruzione finale a farci capire che oramai siamo vicini al "troppo tardi" Di Alessandro Bertirotti, L'Antropologo della mente
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