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Ott 27

Il Mercante di Venezia, di Maurizio Bonanni

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Al Teatro Argentina di Roma va in scena,dal 21 ottobre al 2 novembre, Il Mercante di Venezia”, di W. Shakespeare, per la regia di Valerio Binasco, che dirige la “Popular Shakespeare Kompany”, e che ha come protagonista Silvio Orlando, nel ruolo di Shylock, l’Ebreo. Il sipario si alza su uno scenario arido, essenziale. Un Muro si erge sullo sfondo. Potrebbe essere quello della Berlino comunista; o dei lager nazisti. Oppure, quello della parete di una bettola malfamata; di una casa senza amore, dedicata al culto del Dio Denaro; di un palazzo nobiliare, con una Bella Addormentata nel Bosco, buona e generosa, alla ricerca di un Autore, un Maestro di Vita e di gioia carnale, che dia luce a un eremo privo di fuoco interiore. La scelta di libertà, fatta dal regista, a me sembra, è quella di rendere moderno, e immediatamente comunicativo (anche se un po’ riduttivo), lo strumento narrativo shakespeariano. Nel bene, e nel male. Nel bene, direi, di una diversa godibilità delle figure attoriali e dei personaggi, spesso forzatamente caricaturali. Come quello del messo servile, dall’eloquio senza capo né coda. Mezzo Brighella, e molto Arlecchino. O come la governante, sorta di damina meccanica, montata com’è su un precario piedistallo senza spessori; pronta a eccitare il divertimento facile del pubblico, con le sue mossette caricaturali. Lei, la donna stagionata, sempre innamorata del suo giroscopio, attorno al quale ruota un mondo domestico, chiuso nel sogno dell’illusione.

E, poi, eccoli gli “Altri”: quelli partoriti dal Muro. Emergono, come naufraghi, da un mare shakespeariano in perenne tempesta, sollevato dalla forza degli umori schiumanti di un’umanità costantemente in pena, alla ricerca di senso e di futuro. Loro, gli amici, intrisi di vino, grondanti umori di un affaccendamento inoperoso; guitti di un teatro reale come la vita stessa; incapaci di un progetto che non sia quello dettato dal proprio ventre. E, poi, c’è la filosofia di Shakespeare: il discorso sul denaro. Una peste che devasta il mondo e l’animo umano. L’appestato ebreo, con la sua casa arida, dove i sentimenti, perfino l’affetto paterno, sono esiliati, compressi dentro il forziere della cupidigia, della vendetta religiosa sul suo nemico cristiano, imprevidente e dissipatore, da lui condannato alla rovina, perché non conosce, né condivide il lutto della Torah. Quello di un popolo ancora disperso senza terra: tragedia storica indelebile, opera di un Dio vendicativo, che regala pioggia di rane e cieli tempestosi, al suo Popolo Eletto.

Ma, la Venezia dei mercanti, del lusso sfrenato, della scoperta del primo abbozzo di capitalismo, del commercio globale, è ancora più degna, agli occhi del grande drammaturgo, di una condanna altrettanto severa, non meno dolorosa della sorte riservata all’Ebreo Errante. Ad accecare il Mercante di Venezia, come un ignavo nel girone dantesco, è quel suo incessante incedere nella vita, per moltiplicare all’infinito il possesso di sempre più numerosi e ricchi beni materiali. Merita la punizione, perché incarna la sfrontatezza e l’arroganza razziale, così simile al riflesso edonistico del lussureggiante clima vittorioso delle Repubbliche marinare. Perché, al Mercante, il denaro serve per acquistare e scambiare sempre più beni, in un vortice senza epicentro, che risucchia la vita in fondo a un sepolcro di broccati, spezie e stoffe preziose. Non importa se, poi, l’argento e l’oro che gli servono a fare commerci vanno a sfamare, senza ristoro, le vite degli amici, che hanno un tenore di vita assai lontano dalle loro reali possibilità; perché sfaccendati, o cattivi uomini d’affari. All’Ebreo, invece, il tintinnio delle monete, che cadono nei suoi forzieri, dà la stessa forza e sapore di potenza della chioma di Sansone, che serra le funi annodate attorno alle colonne del tempio degli infedeli.

Di quell’eroe mitico, sempre pronto all’ultimo strappo, l’Ebreo ne condivide l’ebbrezza, un attimo prima di morire anche lui, schiacciato dalle rovine del suo stesso mondo d’apparenze e d’inganni.  Poi, infine, c’è il Potere della Rendita. Quello della Lady, la castellana ereditiera, talmente ricca, da essere povera del più grande dei beni grandi: l’affetto di un uomo. Condannata allo zitellaggio da un padre-padrone che, anche post mortem, ne tiene serrato il destino, nella sua mano fredda di pietra. Un padre dispotico, che ha fissato, come la Sfinge, un indovinello in tre sassi, per dare al viandante sconosciuto un talamo immerso nel lusso e nella ricchezza, come a un novello Aladino. E, paradossalmente, il Bardo (sempre lui, Shakespeare) sembrerà preferire il nobile Rentier, colui, cioè, che il denaro l’ha avuto per grazia divina, condannando il Mercante e l’Ebreo, che ne hanno fatto il fine esclusivo delle loro vite. Sarà proprio l’amico dissoluto, colui per il quale la vita è.. “Debito”, a divenire la macina del mulino dell’esistenza, che rende granuli, ciò che prima era macigno, materia compatta.

Così, ecco apparire la forza trascendente che l’uomo stesso si è dato: “La Regola”. Ovvero, la legge, da cui discende la legalità del”Contratto”: quello tra il Mercante e l’Ebreo, per il quale, a fronte di tremila scudi di prestito, il figlio d’Israele avrà diritto a una libbra di carne del mercante cristiano, in caso di inadempienza. Nulla è al di sopra della legge. Nemmeno il Doge, che sarà chiamato a giudicare la controversia, al momento in cui il Destino disperde in mare tutte le fortune del Mercante, punendo nel frattempo e “contestualmente” l’ebreo, con il tradimento della figlia, che si fa cristiana, derubandolo di tutte le ricchezze nascoste in casa. Per l’Ebreo, però, più forte della perdita dei suoi forzieri, è la sete di vendetta, nei confronti di un mondo cristiano che disprezza e umilia la sua gente, chiedendo, però, un credito per i propri peccati. Ed è la “Rendita”, alla fine, a salvare il Mercante e il suo amico dissoluto, condannando l’Ebreo a un destino di povertà e di conversione coatta.

Perché, nella “Rendita” c’è lo spazio tranquillo, mondato dalle ansie della conquista quotidiana del bene materiale e del suo accumulo, a tutela della malagrazia. In quello spazio limbico, dove la necessità materiale è vinta, per definizione, rimane il tempo dell’arricchimento “culturale”. Perché l’Uomo, sembra voler dire Shakespeare, “è” il suo Pensiero. È l’Intelligenza che produce la Legge, e quella che ne studia a fondo gli effetti. E sa, quindi, rivoltarla come un guanto, tenendo in vita la sacralità formale del “Contratto”; ma ritorcendolo, come farebbe una lama a doppio taglio, contro l’Ebreo che avrebbe voluto strappare -proprio grazie al rispetto del “Contratto” stesso- il cuore del suo nemico giurato. Ecco, tutti quei significati, voluti da un Teatro che insegna, prima di apprendere, mi pare siano stati adeguatamente rappresentati, anche in questa, un po’ particolare, messa in scena.

E, tutto ciò, malgrado si abbia la sensazione di trovarsi davanti a una versione che ha il sapore dolciastro di una “fiction” televisiva.  Laddove, una mano esperta potrebbe non gradire quei volumi scultorei dei personaggi sulla scena, vivificati in un’argilla ancora un po’ tenera, non ben indurita dalla spietata testa di medusa del grande Bardo. Ma, lo spettacolo, direi, funziona, malgrado tutta la “semplificazione” (che non è, però, mistificazione), voluta o procurata dal suo stesso ridurre.

Di Maurizio Bonanni

 

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