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Dic 10

La Vita che ti diedi, di Maurizio Bonanni

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modificata C'è una vita oltre la vita? Nel dramma pirandelliano "La Vita che ti diedi", la risposta è annegata nell'ateismo disperato di colui che non crede, ma vede, nella forza traslazionale dell'immaginario della Mente, quella stessa eternità che intende negare. Al Teatro Quirino di Roma va in scena, fino al 21 dicembre, una delle più amletiche e freudiane opere di Pirandello, per la regia di Marco Bernardi, che dirige Patrizia Milani (una convincente e affascinante interprete della protagonista, Donna Anna Luna) e Carlo Simoni (perfetto, nel ruolo di Don Giorgio), della compagnia del Teatro Stabile di Bolzano. Particolare interesse desta la scenografia di Gisbert Jaekel, che sceglie il bianco abbagliante, e le violazioni di scala, muovendo il piano della proiezione mongiana (Gaspard Monge è il grande inventore della Geometria Descrittiva), verso quello della rappresentazione, che prende ispirazione dalle prospettive ribaltate del piano giottesco, prima, e di quello cubista di Braque, poi.   Il palcoscenico diviene, così, un tragico piano inclinato, in cui le pareti accentuano sfacciatamente le loro linee di fuga, per convergere verso un grande portale rinascimentale marmoreo, sorta di forca caudina, dove transitano, per il breve tempo necessario, le figure e gli ospiti più importanti di quella casa, che nega la morte. E lo fa attraverso la luce dirompente, violenta, che penetra sulla scena da un abnorme finestrone, frontistante alla porta, altrettanto ciclopica, della camera del dolore. Sul lato della finestra, giacciono, come oggetti smorti, una piccola scrivania con sedia, e una sottile panca, sulla quale, a fatica, i vari personaggi tenteranno di dare un senso all'assurdo. La ricostruzione del periodo storico, degli anni venti e trenta del secolo scorso, è affidata alla cura estrema dei dettagli, che caratterizzano gli abbigliamenti maschili e femminili, persino nelle divise dei servi, nei cappelli per signora e nelle scarpe d'epoca, algide e sensuali, nello stesso tempo.     Pirandello, in questo suo dramma, ambientato in una villa della campagna toscana, sembra voler rivisitare, a modo suo, il culto dei morti, guardando, prospetticamente, verso il mondo spirituale degli Egizi, degli Etruschi e, infine, dei Romani, con il loro culto dei Penati, in cui i morti sono tenuti costantemente in vita dal ricordo dei vivi. E questo è il punto sacrale, tutto intorno al quale Donna Anna Luna avvilupperà la sua lucida follia, contagiosa e inarrestabile, che non intende in alcun modo piangere il figlio morto, malato e irriconoscibile, riportandolo in vita, come un Lazzaro virtuale, all'interno dell'ampolla vitale dell'Amor Materno. Perché la vita oltre la morte è una dolce, struggente attesa di colui che non tornerà, ricordandolo com'era, sette anni prima che si allontanasse dalla casa materna, per non farvi mai più ritorno, se non poco prima di morire, ridotto a una larva di se stesso. Perché noi non siamo mai quello che siamo, ma ciò che crediamo di essere. Donna Anna abbandona il senno della ragione, perché nulla di essa vi è nella morte: un non senso, quest'ultima; perché è inconcepibile un figlio che muoia prima di sua madre, la quale, per questa crudeltà inspiegabile, non sarà mai più viva nel ricordo di lui.   Inutile il richiamo spirituale di Don Giorgio sul senso cristiano della morte. Vani i tentativi di una sorella, Donna Fiorina, buona, saggia e angosciata, che tenta -attraverso la propria disperazione- di sottrarla a quel suo viaggio dantesco nell'Ade, a incontrare non l'anima di suo figlio, come vorrebbe Don Giorgio, ma proprio "Lui", la sua figura terrena, quella che Donna Anna riconosce come l'unica e sola fonte della sua maternità incorrotta. Dal dialogo quasi sussurrato del prelato e della sorella veniamo a sapere del grande amore del figlio morto per una donna sposata, con due figli, da lui raggiunta in Francia sette anni prima, per seguire un amore folle, senza corona e senza casata. Ed è proprio la corrispondenza mai partita tra il figlio e la sua amante, Lucia, a fare da innesco all'assurdo ragionamento pirandelliano. Al fantasma reincarnato, che si veste di vita solo nella mente sconvolta di sua madre, si oppone la forma concreta, carnale dei due bellissimi figli della sorella, obbligando Donna Anna, per un attimo, a transumare dal suo non-mondo, varcando la soglia del quotidiano fattuale e terreno, testimoniato dal bacio e dalla carezza affettuosa per i nipoti.   Sarà proprio l'irrompere di Lucia nella casa materna di lui, e quel suo rivelare a Donna Anna di essere incinta di suo figlio, a denunciare questa sorta di lobotomia imperfetta del ricordo tridimensionale, dove l'irrealtà si infiltra nella troposfera del reale e, a sua volta, ne viene violentata, a seguito di quell'apparire contemporaneo delle due madri. Quella di Lucia, precipitatasi nella villa toscana per riportare indietro la sua figlia sciagurata, restituendola a un marito despota e infedele. E, poi, lei: Donna Anna, che aveva riconosciuto da subito Lucia come figlia sua, e già vedeva rinascere dal suo grembo il volto bambino del proprio figlio perduto, trasfigurato in quella dolce attesa materna. Ma sarà proprio Donna Anna, gremita dall'impeto irresistibile del risveglio che scaccia l'incubo, a rinunciare alla futura nuora, sospingendola verso la sua non vita francese, perché -per stessa ammissione di Lucia- l'amore di suo figlio era già bastato a indurre in lei un nuovo amore vivente, per quei due figli suoi che, prima di lui, sentiva così lontani ed estranei, per via del loro padre sciagurato.   Spettacolo eccellente, ottimamente recitato e vivamente consigliato ai più giovani, perché apprendano, attraverso parole mature, i grandi interrogativi esistenziali, che riguardano la condizione umana su questa terra, con particolare riferimento al dilemma della Vita e della Morte: Che cos'è vivo, e che cosa è morto in noi? Di Maurizio Bonanni
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