Feb 28
TRITTICO FOSSE… fautore di un teatro “minimalista”, che sembra coltivare tutti i luoghi ambigui del “non-detto”. Di Maurizio Bonanni
La nuova, meritoria conduzione del Teatro di Roma dell'Argentina (oggi Teatro Nazionale, al quale sono stati così triplicati gli impegni a.. invarianza del contributo statale!), nella persona di Antonio Calbi, ha coraggiosamente varato una stagione teatrale particolarmente innovativa. L'intento è di far conoscere al grande pubblico -sopratutto ai giovani- autori teatrali moderni, usando il volano del Teatro India, sito nella ex area industriale del Gazometro, nel cuore del popolare quartiere Marconi, uno dei più densamente abitati di Roma, e del tutto privo di spazi culturali collettivi adeguati. Nella settimana che va dal 23 al 28 febbraio, è stato presentato un Trittico teatrale, dedicato a Jon Fosse. La prima opera ha il titolo di Suzannah, dal nome di battesimo della moglie di Henrik Ibsen. La scenografia si compone di due arredi essenziali: una vecchia poltrona in primissimo piano, e una tavola apparecchiata per tre, sullo sfondo. Commensali evocati: la moglie di Ibsen (la sola presente in scena); Ibsen stesso; suo figlio Sigurd.
L'anziana Suzannah, sofferente di dolori articolari, inizia il suo racconto rannicchiata nella poltrona, lo sguardo perso nel vuoto, il bastone da passeggio che pencola al lato del cuscino. Fruga nei ricordi. Fa rivivere il marito, morto da tempo, attraverso il rituale della tavola imbandita per il proprio compleanno. La prima descrizione è sulla sua inconsolabile solitudine, che la vede prigioniera di una casa con troppi spifferi, in un quartiere di una città fredda e piovosa (Kristiania), dove tutto lo spazio urbano sembra ruotare sul Kristiania Norske Theater, di cui Ibsen divenne il Direttore. L'anziana Suzannah ricorda le stranezze di Ibsen, il suo terrore nell'aprirsi a sconosciuti; quell'odio-amore provato dall'Autore per la sua stessa scrittura. E, poi, i fogli del calendario che scorrono, scivolando di continuo a ritroso nel tempo, come altrettante foglie al vento, colte nel loro incessante movimento, che le vede fuggire lontano, l'una dall'altra, senza tregua, mosse dal vento dei ricordi.
D'improvviso sulla scena appaiono altre due donne, corrispondenti ad altrettante età della vita già trascorsa della protagonista, come quella della goffa giovinetta, Suzannah Thoresen, nipote della scrittrice Anna-Magdalena Thoresen, che si innamora perdutamente di Ibsen, riuscendo a sposarlo, in pochissimo tempo. La giovane è affiancata da una donna più matura, che racconta, con l'ausilio della tavola-pivot, dei compleanni trascorsi; della sua vita coniugale con Ibsen, la cui presenza era sgradita alla matrigna di Suzannah, che pure aveva organizzato il primo incontro tra il grande scrittore e la figliastra. Le tre figure transitano, ora sovrapponendosi, ora giocando l'assolo, attraverso la finestra mentale di Suzannah, per divenire cosa concreta, carnale, che ricrea, attraverso la sua essenza, il dolore dei tradimenti di Ibsen, perennemente innamorato di donne più giovani, fino ad arrivare sull'orlo della rottura matrimoniale con Suzannah. Lei, che lo ha saputo così bene proteggere da se stesso, creando la sua creatività, attraverso l'atto devozionale, e la condivisione piena del genio artistico del marito.
La seconda prova d'Autore, dal titolo "Io sono il Vento", ha al centro due giovani personaggi, dalla recitazione incerta, intenti a governare una barca; scarsi conoscitori del mare e dei suoi imprevedibili pericoli. Lo scenario simula la piattaforma di una grande zattera (la tolda della nave), su uno spigolo della quale è impostata una barra di legno che serve da timone, mentre un paio di botole simulano l'accesso alla cambusa e al ricovero delle sartie e dell'ancora. L'opera lavora sul linguaggio estremamente impoverito di certa gioventù moderna, che si esprime a monosillabi, iterando spezzoni di frasi, che non iniziano, né coronano mai un discorso finito, lineare e/o in qualche modo narrativo/dimostrativo di sentimenti, di sensazioni interiori, che non siano deducibili, con abbondanti e approssimative linee di interpolazione, dai gesti e dalla corporalità dei due protagonisti.
Il primo, dei due mostra un'apparenza ritorta, come un legno annodato più volte sul fusto principale, che lo fa girare inutilmente su se stesso, e trasudare linfa vitale, fino all'estinzione, per l'impossibilità di maneggiare dialetticamente le sue angosce interiori, ponendole compiutamente al di fuori del proprio essere, per affidarle alla pietas e alla cura del suo semisconosciuto passeggero. In base alla libera interpretazione della regia, a colpire l'immaginario dello spettatore è proprio la morbosità affettiva di quest'ultimo, che porterebbe a concepire una sorta di terrore del primo per un sentimento diverso, che diventa sofferenza intollerabile, per chi ispira le sue azioni al machismo del lupo di mare. Finché, arriverà la tempesta e con lei si accompagnerà lo scenario dell'uomo caduto (volutamente) in mare, che rifiuterà di salvarsi, malgrado i soccorsi disperati dell'amico, per mettere quiete, finalmente, al suo indomabile travaglio interiore.
Infine, la terza opera porta il titolo: "Inverno" ed è forse, il più terribile dei tre racconti sulla solitudine. La scena si presenta completamente spoglia di arredi. Le poche cose (vestiti nuovi, in particolare, e vivande) sono contenute in due grandi borse per la spesa, portate a mano dalla protagonista più anziana. Una bravissima (e decisamente bella) attrice giovane, appare in scena in abiti discinti, dimenandosi come un'indemoniata, al suono ossessivo di una volgare disco da balera di periferia, mimando gesti bruschi e osceni (come masturbazione e fellatio), che accompagnano, con il dito medio puntato come un coltello, poche parole, urlate con ferocia, di un turpiloquio iterativo, caratteristico di stati confusionali, indotti da sostanze di sintesi.
Barcollando e maledicendo fantasmi sconosciuti di uomini, ai quali vende quotidianamente il suo corpo, la giovane donna lascia che la sua disperazione esistenziale si scontri con l'apparente forza tranquilla normale di una donna matura (nell'opera originale, si tratta, in realtà, di un uomo), incontrata per caso all'uscita dalla discoteca. E qui, nella sua libera interpretazione dell'opera di Fosse, la regia intende indagare, a viso aperto, l'omosessualità latente che accompagna le vite di molti soggetti insospettabili.
Così, la donna matura si innamora follemente della giovane sciagurata (che le si offre come la.. sua ragazza), tagliandosi tutti i ponti alle spalle -famiglia, marito, figli e lavoro-, pur di inseguire il suo giovane amore folle che, alla fine, si farà convincere a cambiare vita, affrontando la nuova, imprevedibile convivenza, di cui non è dato conoscerne l'esito. Come nello spettacolo precedente, il testo è assottigliato, fino a divenire una lama di rasoio, nata per recidere, e non per cucire i lembi delle ferite attraverso il Logos, la comunicazione compiuta, da utilizzare come corda saggia pirandelliana, ovvero, come uno strumento evoluto, per mettere a disposizione dell'Altro l'Io profondo, generatore di turbamenti e di tormenti esistenziali.
Jon Fosse, con le sue asperità lessicali minimaliste, tende -verosimilmente- a evocare quei potenziali destrutturanti e caotici, attivati da un'istintualità recondita e possente, messa all'indice dal conformismo intellettuale (quello della grammatica fine e dei buoni argomenti). Il progetto, a quanto pare, è quello di lasciare trasparire la forza violenta di reazione, che fa da contrafforte e da derivato alla marginalità affettiva, morale e materiale. Perché, proprio quest'ultima, porta allo sfinimento della ragione e, infine, all'auto annientamento, all'esclusione del Se dal mondo reale; per focalizzarsi sul punto centrale della sfera sensitiva individuale, come accade nei soggetti più deboli, privi di quelle difese esterne, che permettono alla corteccia degli alberi di proteggere la parte interna, più vitale, dagli agenti esterni che ne minacciano la sopravvivenza.
Duro, Fosse, come la giungla urbana che ci circonda e ci massacra, nella quotidianità di ciascuno di noi.
Di Maurizio Bonanni