È tutta questione di… cattiveria.
Sulla
Stampa leggiamo l’
inizio di questa storia che si
conclude con la morte di Stefano.
Innanzi tutto, i miei
personali complimenti a tutti i condomini che hanno reso facile la vita di questo ingegnere gestionale, disabile, che cercava di installare, a sue spese, un ascensore per raggiungere la sua abitazione al terzo piano, dopo l’amputazione di una gamba, in seguito al tumore che lo ha portato alla morte.
Mi sembra lecito chiedersi come mai, esseri umani, ancora prima che
cattolici e praticanti, abbiano ostacolato gli ultimi giorni della vita di Stefano, ossia quali possono essere le ragioni che portano alcuni individui a specchiarsi così precisamente negli altri?
La
prima risposta è desumibile dalla domanda: alcuni individui sono talmente convinti della propria giustezza morale, espressa quasi esclusivamente in una manifestazione domenicale di devozione, oppure attraverso parole pronunciate per tradizione, da vedere negli altri il peggio che cercano di nascondere a se stessi, oppure che reiteratamente confessano.
La
seconda risposta è legata al fatto che l’abitudine a frequentare luoghi nei quali alberga il “doppio pensiero” – ossia si dice quello che gli altri si attendono di sentir dire, ma si pensa di fare esattamente il contrario alla prima buona occasione – come possono essere le parrocchie e i partiti, conduce alcuni individui a perdere coscienza di quello che sono realmente.
Come poter
aiutare queste persone a comprendere che esiste una relazione importante fra quello che si dice e quello che si fa?
Una
possibile soluzione educativa potrebbe essere quella di imporre a coloro che frequentano questi luoghi un assoluto silenzio per almeno due/tre anni di frequentazione, con la regola ulteriore di parlare solo quando si sentissero nelle condizioni di fare quello che dicono.
Una
seconda regola educativa potrebbe essere quella di obbligare, in questo periodo di tirocinio, a frequentare quasi quotidianamente tutte le persone che si dice di amare e che alla prima occasione diventano l’occasione per dimostrare al mondo quanto falsi si possa essere, e quanta distanza ci sia spesso tra parole e azioni.
Se
tutti noi avessimo in famiglia almeno un drogato perso, un finocchio, un handicappato, una mignotta, un ammalato di cancro, uno scemo, un vecchio inutile, o
altro essere umano di questo tipo, forse non solo saremmo più silenziosi, ma diventeremmo più consapevoli di cosa significa amare il prossimo.
Ed ho
utilizzato in questa ultima frase le parole che si sentono nelle piazze e nelle strade, per meglio evidenziare che i termini di riferimento a questi casi di vita sono di per sé il peggio che si possa trovare nel cervello dei benpensanti, ahimè, spesso cattolici praticanti che del Vangelo non hanno colto il messaggio.
Di
Alessandro Bertirotti, l'Antropologo della Mente