Giu 07
“YOUTH”: CANNES ADDIO! Di Maurizio Bonanni
Ma che si fumano a Cannes? No, perché, evidentemente, giurati troppo in là negli anni non debbono amare molto la... "Giovinezza"! In realtà, "Youth" a me è sembrato, francamente, non solo un "must" di Sorrentino ma anche un film capolavoro, in cui l'Arte (sempre lei!) dell'immagine, dei suoni e delle parole è la chiave giusta per interpretare un mondo che vira rapidamente al caos. E il sanatorio extralusso, arroccato ai piedi di bellissime montagne svizzere, è il laboratorio di osservazione delle classi dirigenti dell'alta borghesia che oggi, nel declino degli anni, sanno solo ricercare l'elisir personale di lunga vita, avendo perduto definitivamente il senso della mission collettiva. Allora, lungo i canali della malattia, vera e presunta, Sorrentino fa scorrere le immagini impietose di carriere famose alla fine (come quella del direttore d'orchestra, interpretato dall'eccezionale Michael Caine) e del regista cinematografico, ormai al tramonto, impersonato da Harvey Keitel.
Quest'ultimo, soprattutto, vuole essere l'erede dei mastri di bottega, da Giotto a Raffaello a Michelangelo, circondato dalla sua coorte di giovani allievi-collaboratori "uniti per la testa" al loro mentore e idolo. Così come ce li dipinge Sorrentino in alcune scene chiave, straiati su di un grande letto, dove il gruppo si esercita all'unisono (all'interno dello schema rodato del "Think-thank") per mettere a punto dialoghi e inquadrature di quella che dovrà essere la scena finale. La conclusione, allora, è facile intravederla fin dalle prime battute: non basteranno l'aria pura delle montagne, né i lunghi convivi intorno a aperitivi, né sit-in improvvisati a regalare l'ultimo anelito d'arte e d'ispirazione a chi, in fondo, non riesce più a darsi un futuro. Perché le battute finali del film incompiuto ruotano attorno alla morte e agli attimi dell'addio, non v'è nulla di meglio che sperimentare quel mistero su se stessi, provando l'euforia di un breve salto senza ritorno, tra due ali di fantasmi femminili.
Michael e Harvey sono uniti da un cordone ombelicale che li accompagna dall'adolescenza, dove l'uno conosce tutto dell'altro, ma solo le cose belle. E, guarda caso, sono proprio quelle altre a fare la differenza! Anche se il loro legame profondo, familistico, è stato rafforzato (come nelle età imperiali) dal matrimonio tra il bellissimo figlio di Harvey e la figlia (sterile?) di Michael, la gioventù dei due ragazzi giocherà le differenze, mettendo sul tavolo verde dell'azzardo un divorzio improvviso, doloroso e lacerante. Ma, i dialoghi intensi si svolgono tra padre e figlia, nel chiuso della stessa stanza d'albergo, dove l'anziano e ostico musicista scopre quante ferite abbia prodotto sulla sua creatura l'egoismo creativo e i tradimenti commessi a danno di una moglie devota e fedele, data per "scomparsa" in questo tormento dell'anima che è la terza età, ma che scopriremo catatonica, ingessata alla sua fine come il grido di Munch.
Poiché l'Arte è vita e l'essere umano si attrezza, per natura, a una sua personalissima "interpretazione", nel suo saggio il regista napoletano si avvale di una sorta di "avatar" (un giovane attore famoso), che cerca disperatamente la sublimazione della sua arte attraverso il mascheramento, la perfezione stilistica della recitazione. Il tutto, pur di realizzare la sua aspirazione a essere riconosciuto come il più grande interprete del mondo presente, passato e futuro. Sarà proprio lo studio del suo limite, che condurrà lo spettatore verso la soluzione attraverso la quale si dimostrerà -sempre e comunque, qualunque sia la forma con cui le si rappresenta- che ciò che conta sono le "emozioni", così come le percepisce il nostro (sempre troppo carente) apparato sensorio, venendo a contatto con le persone reali, le vite altrui, i loro limiti e difetti.
Così, l'incomunicabilità assoluta, a tavola, di un'anziana coppia benestante diviene esplosione di una tarda sensualità nella coltre solenne del bosco, mentre un lirismo struggente, felliniano, avvolge l'immagine onirica della strana coppia rappresentata dalla prostituta bambina, che giganteggia con la sua mole esuberante accanto a una madre minuta, dallo sguardo profondamente triste e assente. Ma l'Arte è anche resurrezione: diviene passione delle vette quando scala le montagne e porta in braccio le pene d'amore altrui, redimendole; ovvero quando fa orchestra corale dei suoni della natura, perché la passione va oltre i limiti dell'invecchiamento.
E, poi, c'è quel Maradona -talmente grasso e obeso, da dover circolare con il carrello dell'ossigeno- che ci regala un saggio dell'arte sua, colpendo a ripetizione, con il suo piede magico, una pallina da tennis. Oltre la vita, al di là della morte, sembra voler dire Sorrentino, il ponte tra cielo e terra è la narrazione di noi stessi dalla creazione a oggi, perché la nostra specie, in fondo, è un'invariante di sistema: dentro, rimane strutturata allo stesso modo di quando venne al mondo milioni di anni fa!
Di Maurizio Bonanni