È tutta questione di…
civiltá.
Quasi mai scrivo in riferimento a temi caldi che i media utilizzano per i loro scopi e per asservimento ai partiti (certo, preferirei l’asservimento alla politica ma quest’ultima non è di casa nella nostra nazione da parecchi anni, almeno dopo la Prima Repubblica).
Eppure questa volta, anche stimolato dai vostri commenti pervenuti durante questo mese di agosto, il tema che scelgo di proporvi per riprendere dopo l’interruzione estiva è addirittura caldissimo. Parlerò, infatti, delle persone che muoiono attraversando zone di guerra, Paesi ostili e il mare su improbabili imbarcazioni, alla ricerca di pace e futuro.
Tutti i media del mondo li chiamano con un termine solo linguisticamente appropriato:
migranti.
Ma perché non chiamarli, come suggerisce l’emittente internazionale Aljazeera, con una parola molto piú semplice:
persone? Credete che qualche media italiano avrebbe mai il coraggio di proporre un’iniziativa di questo genere?
Sono fermamente convinto – e l’ho ribadito durante un meeting internazionale, alla presenza anche di rappresentanti del governo turco – che nel prossimo futuro nel mondo
non esisteranno più le nazioni come ora le vediamo, ossia con confini e leggi nazionali. Stiamo andando incontro ad una gestione mondiale dell’Umanità, e senza neanche saperlo stiamo esattamente decidendo quali saranno i termini di riferimento di questa politica globale.
Allo stato attuale quello che vedo è un mondo in cui non si parla più di persone, ossia esseri umani dotati di corpo, di mente e soprattutto di dignità. “
Loro” sono tutti, indistintamente e collettivamente, solo migranti. Bene, io credo che se non riusciamo a porgere la minima attenzione alle sofferenze e ai dolori che si nascondo dietro gli occhi di altri esseri umani significa che abbiamo perso il contenuto e il valore che attribuiamo anche a noi stessi.
Che
differenza esiste tra noi, persone che ospitano, e “loro”, persone che migrano? Cosa ci fa pensare che “loro” siano carne da macello, che, nell’indifferenza quasi totale, annegano con le loro speranze e i loro sogni, nelle acque del nostro meraviglioso e contraddittorio Mediterraneo?
So bene che quello che sto per dire farà inorridire molti di voi, miei cari lettori: sono convinto che solo quando
apriremo le frontiere in un regime di reciproca corresponsabilità mondiale potremo verificare quanto lavoro ci sia veramente per tutti e non solo per gli eletti che mangiano a scapito di altri, quelli che muoiono di fame e di disperazione.
Sarà senza dubbio una guerra di tutti contro tutti, ma lo sarà comunque se non smetteremo di operare queste differenze fra casa mia e quella altrui. E con questo non è detto che si debba procedere senza regole di convivenza. Ma se iniziassimo a pensare che
siamo tutti esseri umani – e non solo alcuni mentre altri solo potenziali naufraghi – sarebbe già un importante passo avanti per definirci civili.
Di
Alessandro Bertirotti,
l'Antropologo della Mente