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Gen 11

Una differenza importante, la differenza di genere in terapia

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Alessandro Bertirotti

Il livello di conoscenza che le terapie mediche allopatiche hanno raggiunto è decisamente alto, e lo è a tal punto che la personalizzazione dell'intervento medico sta diventando un fattore non soltanto importante a livello scientifico quanto anche ad un livello economico.
Poter fare diagnosi e stabilire terapie, con relative prognosi, di tipo mirato significa, in sostanza, un notevole risparmio di tempo e di risorse.
Sostenere questa posizione teorico-pratica è persino banale, mentre risulta ancora difficile introdurre nella pratica medico-assistenziale l'idea che oltre una differenza tra i pazienti rispetto alla stessa terapia vi è anche una differenza di fronte alla malattia: l'essere maschio oppure femmine.
La questione di genere in medicina è cosa delicata, perché investe tanto il ruolo del medico, quanto quello del paziente e, ad oggi, non se ne parla e discute quanto, secondo me, sarebbe necessario. In effetti, l'ingresso delle donne nel mondo accademico sanitario sta avvenendo da qualche anno in modo relativamente massiccio, mentre potevano ancora affermare, sino a pochi anni fa, che anche la medicina, come lamagistratura, erano sostanzialmente professioni maschili.
Provate a pensare come solo da pochi anni si sente parlare di ginecologi e urologi donne, mentre fino a qualche anno fa si trattava di specialità mediche implicitamente destinate, secondo la tradizione ad un genere culturalmente definito.
E questo è solo un esempio per quello che concerne l'esercizio di una professione storicamente maschile e che, oggi in effetti, vede invece moltissime donne presenti nelle corsie ospedaliere, anche se la loro presenza è vissuta talvolta ancora con un certo imbarazzo. Per fare ancora un ulteriore esempio, sono ancora troppo poche le donne chirurgo e mi è capitato, a volte, di assistere a situazioni in cui il paziente non si fidava molto dilasciarsi "tagliare e curare" da una donna, preferendo invece un maschio.
Altrettanto interessante è però affrontare la questione del genere in campo terapeutico, ossia riferendoci a quella personalizzazione della terapia di cui abbiamo parlato all'inizio dell'articolo.
Alla fine degli anni Ottanta ci si rende conto che molte donne ricevono adeguate terapie. Grazie agli sforzi di alcune volenterose, come Marianne J. Legato, direttore della Partnership for Gender-Specific Medicine allaColumbia University, le donne cominciano ad essere inserite negli studi clinici, proprio per testare scientificamente la presenza o meno di reazioni diversificate e basate sul genere rispetto ad uno stesso intervento terapeutico.
Sulla base dell'ipotesi che uomini e donne sono ovviamente soggetti alle influenze di fattori socio-culturali come di quelli biologico-fisiologici legati al genere di appartenenza, la prima cosa da fare era proprio quella di collezionare un certo numero di ricerche cliniche che dimostrassero inequivocabilmente la necessità di unamedicina di genere.
Ma includere le donne negli studi è problematico per due ordini di motivi: a), l’organismo femminile va incontro a ciclici cambiamenti dell’assetto ormonale, per cui è difficile ottenere un campione omogeneo; tanto nelle volontarie come nei ricercatori è vivo il timore delle conseguenze che alcune sostanze utili alla sperimentazione possono avere sulla fertilità, e sulla salute dei nascituri.
Purtroppo questi dubbi, che portano quasi sempre all'esclusione delle donne nelle sperimentazioni, ha almeno due effetti altrettanto gravi: alcune terapie sono decisamente meno efficaci in ambito femminile; le donne presentano una maggiore frequenza (da 1,5 a 1,7 volte) di “effetti collaterali”, spesso spiacevoli e a volte gravi. E la gestione di questi effetti è per il sistema nazionale sanitario un’importante voce di spesa.
Una possibile soluzione è in effetti quella praticata nella maggioranza dei paesi, ossia l'attenzione farmacologica post-marketing, grazie alla quale si raccolgono i dati relativi a questi effetti e li si collocano all'interno di griglie che ne consentono l’interpretazione.
Insomma, la tanto decantata differenza di genere non è solo una questione di sensazionalismo mediatico, ma una consapevolezza antropologica che potrebbe avere una serie di conseguenze benefiche in molti settori della nostra vita, migliorandone certamente la qualità.
Di Alessandro Bertirotti
Da Affaritaliani.it
 
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