Palermo, città non troppo aperta alle novità, è il palcoscenico di una delle più controverse kermesse di questi ultimi anni. Il Pride, cioè la giornata dell’orgoglio omosessuale, una manifestazione che coinvolge istituzioni e associazioni di riferimento e che, secondo alcuni, accende, per qualche giorno, i riflettori della nazione su questa nostra splendida e piagata città. Grandi aspettative, dunque, per i gruppi che agitano il problema del riconoscimento dell’omosessualità non come fenomeno d’eccezione ma come modo di vivere una sessualità “altra”, non censurabile col marchio indelebile della volgare dell’esclusione.La domanda che, però, ci facciamo è se il mezzo, cioè il Pride, corrisponda concretamente all’obiettivo. Non crediamo infatti che, a parte gli aspetti folklorici, questa manifestazione possa costituire, come enfaticamente afferma qualcuno, strumento per uscire dal ghetto nel quale si troverebbe oggi l’omosessuale, piuttosto, ci convince, l’opposto. Il Pride, a livello di contenuti ideologici, segna infatti, a nostro modo di vedere, ancor di più la linea di demarcazione, la differenza, fra un mondo definito normale ed uno considerato finora eccezione. In sintesi, esso conferma e, perfino, costruisce il ghetto.
Da una parte, infatti, mette quanti vivono, e concepiscono come “corretta” una sessualità “tradizionale” – uso questo termine per non cadere in equivoci – e dall’altra quanti vanno al di là della stessa. In pratica è un affermare che l’omosessualità non “tradizionale”, vissuta dunque come condizione anomala, diremmo eccezione alla regola, debba ricorrere ad effetti speciali, appunto quelli con i quali si manifesta nel “Pride”, per potersi esprimere e manifestare pubblicamente. Un evento, dunque, che ha funzione di esclusione piuttosto che di inclusione.
Inoltre, ci pare evidente che, nelle manifestazioni di questo tipo, ormai relegate come fenomeno culturale ad un rango secondario – hanno perduto a livello internazionale la propria incidenza e sono solo considerate come grandi fiere spettacolari – il filo rosso, conduttore, che si percepisce sia quello della sfida che, in poche parole, non si sostanzia solo nel “noi ci siamo”, fatto che non sarebbe censurabile, ma nella provocazione al mondo, chiamiamolo, convenzionale, agli stili di vita consolidati, al modo di essere della società considerati, nella migliore delle ipotesi, superati quando non, addirittura, fuori dalla modernità.
Proprio per questa sua carica provocatoria il Pride non concorre, almeno a nostro parere, al raggiungere l’obiettivo, ma determina, come conseguenza solo rotture di dialogo, incrinamento della comprensione e compromissione delle aperture. Fatti, questi, che non possono, certamente, rendere felici quanti, sicuramente meno di ieri visto che qualche passo avanti si è fatto, trovano difficoltà a far riconoscere come “non anormale” una condizione che viene ritenuta, dalla gran parte del contesto sociale, come invece non tale. Queste considerazioni ci portano, dunque, ad essere sostanzialmente perplessi sia sul giudizio che sulla produttività dello stesso evento come mezzo di affermazione di una “diversità” che ancora risulta emarginata.
Di Pasquale Hamel
Giu 15