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Giu 25

L’intelligenza, la scuola e la famiglia, di Alessandro Bertirotti

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Esiste una metafora antropologica secondo la quale il significato del termine intelligenza dipende essenzialmente dal sistema della cultura che caratterizza una data società. In questo senso, ossia in ottica cognitivista, la cultura è quell'insieme di capacità, abilità, comportamenti e metodi di acquisizione di nuove conoscenze che sono apprezzati e considerati validi da un determinato gruppo sociale. Siamo dunque nel regno delle acquisizioni e trasmissioni di informazioni, di generazione in generazione.
Secondo questa concezione è possibile agire sulla cultura di una popolazione, facendo in modo che tali azioni abbiano un'importante ripercussione sulle intelligenze individuali. Si tratta di un nesso davvero cruciale, che evidenzia l'importanza delle informazioni non solo in quanto tali, ma e soprattutto come il veicolo primario del cambiamento culturale. Nel 2000, un'interessante ricerca di Grotzer e Perkins dimostra, in effetti, come una "comunità di apprendimento", all'interno di un gruppo di scolari, possa stimolare un miglioramento delle prestazioni cognitive generali (Grotzer T.A., Perkins D.N., 2000). Uno tra i più importanti filosofi del Novecento che pone l'accento su questa relazione è John Dewey che definisce alcune caratteristiche comportamentali della vita intelligente, ossia l'apertura mentale (la capacità di accogliere opinioni diverse dalle proprie), la ricettività intellettuale (la capacità di cum-prendere), e, in particolare, il pensiero riflessivo. Robert H. Ennis, in uno studio del 1987, propone di portare a 14 le disposizioni essenziali che caratterizzano una mente critica, inserendo il desiderio di acquisire informazioni (secondo il genetista Edoardo Boncinelli la mente umana è "informivora"), l'esattezza e l'attenzione, la capacità di fare riferimento ai sentimenti, al livello di conoscenza e al grado di sofisticazione presenti negli altri individui (Ennis R.H., 1987). Ma queste considerazioni hanno un significato importante non in quanto ricerche fini a se stesse, quanto per le implicazioni didattiche che esse comportano, perché se un docente è in grado di stimolare, durante le proprie lezioni, questo tipo di comportamento nei propri studenti siamo in presenza di un vero e proprio apprendimento. Infatti, con il termine apprendimento si fa riferimento all'acquisizione di teorie e pratiche che, mantenute nel tempo, modificano il comportamento quotidiano di colui che le adotta. In altre situazioni, ossia quando si crede di cambiare qualche cosa di noi, e in effetti si tratta solo di una credenza, non siamo in presenza di un apprendimento, bensì di una sorta più o meno sofisticata di imitazione. Anche se l'imitazione è alla base del funzionamento cognitivo astratto e simbolicamente orientato, la stessa diventa importante quando l'individuo è in grado di recuperare in memoria i gesti e contenuti teorici visti, oppure ascoltati, attivando l'imitazione autonomamente. Proprio in questa attivazione risiede la capacità di sviluppare dall'imitazione sia pensieri che azioni autonomamente. La condivisione culturale di questi apprendimenti modifica indubbiamente lo stile di vita comunitario di un gruppo, intervenendo in questo modo, sui processi culturali a lungo termine. È esattamente quello che sta accadendo alla nostra generazione con l'utilizzazione dei social network, che rappresentano un luogo comunitario di apprendimento, in grado di modificare il nostro stile di pensiero e le azioni ad esso legate. In effetti, sono molti gli studi che dimostrano come nell'apprendimento comunitario si attivino con maggiore forza la motivazione e l'apprendimento individuali, favorendo in realtà tanto la vita sociale quanto quella individuale. In uno studio di Brown e Campione del 1994 si dimostra come i bambini inseriti all'interno di una comunità di apprendimento siano nelle condizioni di sviluppare maggiormente un pensiero critico, condividendo quello che imparano, discutendo fra di loro sulle conclusioni alle quali pervengono assieme (Brown A.L., Campione J.C., 1994). Tutto questo dimostra ancora una volta come l'approccio antropologico-mentale allo studio della trasmissione del sapere sia utile, specialmente in riferimento a precise didattiche interdisciplinari. Vi è però un secondo elemento da tenere presente, se vogliamo che questa didattica abbia effettivamente luogo e funzioni: si tratta della dimensione culturale, in questo caso, rappresentata dalla famiglia degli studenti. Con il termine "culturale", non ci riferiamo decisamente al livello di alfabetizzazione primigenia, altrimenti nessuno potrebbe utilizzare la scrittura che, altro non è, che la trasposizione mentale-grafica di tutte quelle attività che si svolgono nella vita quotidiana. Mi riferisco invece a quell'ambiente familiare in cui i contenuti sperimentati a scuola, ogni giorno, diventano dei precedenti. Ecco perché possiamo sostenere che l'apprendimento non è esclusivamente ad appannaggio della scuola, liberando da ogni responsabilità la famiglia. In realtà, si vuole proprio affermare il contrario per cui sarebbe auspicabile l'ottenimento di una comunità di apprendimento inclusiva, sempre più inclusiva, tra scuola e famiglia. Di Alessandro Bertirotti, l'Antropologo della mente
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