Il Teatro Argentina ha messo in scena, nell'unica rappresentazione prevista, lo spettacolo "LA FESTA", che ha come attori protagonisti non professionisti i detenuti del Reparto G8 del carcere di Rebibbia.
Per quanto mi riguarda, giudico l'esperimento riuscito e interessante: la devianza, una volta messa in scena dai.. "deviati", possiede un carattere fortemente catartico, trasformando l'energia distruttiva -di chi ha vissuto di e nella violenza-, in emozioni cristalline, trasmesse allo spettatore -per forza d'induzione- da coloro che, saliti senza maschera sul palcoscenico, mettono in gioco soprattutto se stessi e il loro dramma collettivo, per esorcizzare la malasorte, che li ha resi prigionieri.
Il messaggio è chiaro: vale la pena di tornare indietro, abbandonando la cattiva strada, pur di continuare a godere della semplice gioia degli affetti (i figli, la moglie, i parenti..).
Venerdì 13 Settembre, il Teatro Argentina di Roma ha ospitato in un'unica soluzione (scelta obbligata, del resto, vista la relativa complessità organizzativa!), lo spettacolo teatrale "La Festa", per la direzione congiunta di Laura Salerno e Valentina Esposito, e con la compagnia teatrale del Reparto G8 del carcere di Rebibbia. Gli attori-reclusi hanno messo in scena una figura retorica complessa del concetto di "captività" (da Captivity)e di reclusione coatta, attrezzandola nel monoblocco delle cucine di un Transatlantico. Lì, hanno stipato il molto amaro e il poco dolce delle loro esistenze, che una mano invisibile continua a traghettare, senza sosta, da una sponda all'altra dell'Ade, concentrando nello spazio ristretto della stiva i suoi gironi danteschi, con il relativo, infinito corteo di buoni e cattivi. Quest'Arca teatrale è articolata in piani alti e in altri, più oscuri, impostati sotto la linea di galleggiamento, nei quali vive precariamente un'umanità sempre dolente, sospesa tra la tragedia del Titanic, e la "resurrectio" (fisica, morale, spirituale) “post penam”, che attende tutti coloro che saranno riusciti a vedere nell'Arte la luce chiara e vivida, in fondo al lungo e buio corridoio dei Passi Perduti.
“La Festa” è il racconto collettivo di una coorte d'invisibili, che soffre -come un sol uomo- della dolorosa cesura degli affetti, rimasti indietro, come la scia di un’elica, in un mare di pece. La mente, ormai, li percepisce come smagriti, senza più quei volumi definiti, tondeggianti e carnali, che avevano prima che i loro pensatori si imbarcassero sulla Nave della Penitenza. L’operazione impietosa della “livella del tempo che passa” cambia inesorabilmente i protagonisti, e sfuma in dissolvenza i ricordi delle persone care. Essendo una cucina tutta al maschile, l'oggetto psichico dominante non poteva che avere una natura femminile, con sembianze prima infantili e poi, a distanza di tempo, di una giovinezza appena sbocciata.
I suoi caratteri forti sono quelli dell'amore filiale, che ha per oggetto una neonata, Miriam, figlia dell'armatore, nata in navigazione e allevata, con pari trasporto ed entusiasmo, da tutti i membri della coorte. Finché, un giorno, all’età di sei anni, la bimba viene bruscamente, dolorosamente, sottratta ai suoi padri adottivi e a quella paternità collettiva, per essere mandata a studiare in due continenti. Il Vecchio, che coincide con l'Europa dei primissimi anni del Novecento, e quello Nuovo dell’America, con i territori immensi della Frontiera, pronti a dare asilo a milioni di poveri, alla ricerca di occasioni di riscattoAll'inizio dell'avventura, la loro centuria di giovani spericolati (impersonata dagli allievi maschili dell'Accademia Internazionale di Arte Drammatica) s’imbarca nella Terza Classe della Nave Penitenza, sognando per molti giorni -appesi al ponte della nave e divorati dal rigore delle notti atlantiche fredde e buie- il paradiso in terra e le meraviglie (il volo, le donne, la ricchezza,..) del Nuovo Continente, sempre all’orizzonte, e mai raggiunto.
Poi, accade un fatto nuovo: il "Padrone" della Nave (ovvero, l'Autorità dello Stato) li recluta -o, piuttosto, li costringe- a prestare servizio, come apprendisti cuochi, nei locali bassi delle cucine, dai quali -fino alla fine del “contratto”- non potranno più risalire, per godersi quegli spazi collettivi dei saloni delle feste (della vita), a loro, ormai, interdetti. E lì, in quel confino galleggiante, la centuria trascorrerà i decenni nell’esistenza reclusa, in navigazione perenne in un mare buio e scuro senza apparenze, tra un continente e l'altro del Desiderio e della Realtà.
Loro unica compagna: un'irresistibile voglia di fuga, interrotta da brevi uscite a terra (permessi premio?), del tutto inconcludenti. Passano dodici anni, e la piccola Miriam torna sulla nave paterna per festeggiare i suoi diciotto anni. La centuria si mobilita per prepararle un'accoglienza indimenticabile, litigando tutto il tempo sugli ingredienti e sulla natura della composizione vivandiera, che oscilla freneticamente tra la “cuisine” francese, e quella più popolare, domestica, dei quartieri storici di Roma.
Nonostante l’attesa, spasmodica e vibrante, nei toni della recitazione, nei gesti e nelle coreografie di gruppo, mobilissime e sempre eccitate, Miriam non si fa vedere: teme di non riconoscerli più; ha paura di riaccendere il braciere degli affetti sopiti; ne teme l'incognita su di sé e su di loro. Allora, a sera tarda, i membri della centuria incontrano, su di un ponte immaginario, altrettante Miriam (che compongono una seconda pattuglia, tutta al femminile, dell'Accademia internazionale), confessando, ciascuno nelle proprie modalità affettive, tutto l'amore inespresso, concentrato in pochi battiti e battute, come chi dispone di troppo tempo inutile per se stesso, ma di pochissimo da donare ad altri, quello che dà un vero senso alla vita.
Complimenti a tutti gli attori non professionisti, perché "veri", incredibilmente migliori di tanti attori di mestiere, spesso prigionieri delle loro insicurezze e di un'ambizione smodata, senza riscontri di pubblico e contenuti reali. Per chi potesse, uno spettacolo da non perdere, alla prossima, auspicabile replica del tutto.