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Gen 21

Alcuni industriali veneti. Di Alessandro Bertirotti

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Alessandro Bertirotti Ho ultimamente avuto occasione di viaggiare assieme ad un gruppo di industriali veneti, e la mi sorpresa è stata evidente quando mi sono reso conto di essere di fronte a "veri padri di famiglia". Vi è stato bisogno di tempo, certamente, perché la scoperta non è facile da fare, come non è facile scoprire qualche cosa che abbia a che fare coi sentimenti negli industriali in genere, perché sono abituati a percepire il mondo circostante in termini economici e dunque secondo la prospettiva della spesa e del guadagno. Ecco perché il viaggio verso Roma è stato appena sufficiente per entrare in contatto umano con altri esseri umani, con altri individui che, delusi, hanno ancora e comunque a cuore le sorti del loro Paese, quello stesso in cui hanno investito tutta la loro vita, le loro speranze e il futuro dei figli. Non avevano ancora sentito parlare della mia materia principe, l'Antropologia della mente, e la loro curiosità, alla fine, ci ha permesso di raccontarci qualche cosa di utile edinteressante per entrambi. Per esempio, io ho cercato di rispondere alla loro più evidente e pressante esigenza, ossia quella di capire come far sentire i propri dipendenti parte dell'industria stessa, non solo necessari alla produzione, ma soprattutto portatori di "benessere esistenziale". Ora è chiaro a tutti gli industriali il messaggio lungimirante di Adriano Olivetti, grazie al quale lo stile nel "fare industria" ha subito nel nostro Paese quell'accelerazione che ha determinato il salto di qualità nella vita contemporanea della nostra popolazione. Ciò che oggi essi chiedono è un metodo con il quale sollecitare negli altri, specialmente nei dipendenti, quella tensione verso il recupero della speranza, che è fondamentale per portare avanti ogni progetto, con tenacia e costanza. In altri termini, essi cercano di recuperare una situazione mentale che faceva parte nella nostra nazione del boom economico degli anni Sessanta, con le dovute ed ovvie differenze rispetto al contesto sociale e culturale. In realtà, le cose sono talmente cambiate che è difficile ritrovare questo tipo di recupero senza fare riferimento allo sviluppo della tecnologia e all'avvento di quel tipo si società che oggi comunemente definiamo "della conoscenza". Sono cambiati gli attori del processo, nel loro modo di pensare il futuro e considerare le capacità umane in esso. Inoltre, è entrata prepotentemente una nuova attrice sociale, produttiva, artificiale e non umana, sebbene sia costruita e ardentemente desiderata dagli uomini: la tecnologia. Proprio per questo avvento, uno dei tre industriali con i quali ho avuto il piacere di conversare, mi diceva quanto egli credesse nel processo di "autoformazione", grazie al quale ogni lavoratore si sarebbe poi ritrovato di fronte ad una tale flessibilità produttiva che avrebbe influenzato la sua autostima e quella di ogni singolo lavoratore, siano essi operai, impiegati o dirigenti. Quanto più gli individui impareranno questo tipo di flessibilità, secondo modelli di comportamento che non hanno però nulla a che vedere con l'espressione di un giudizio di valore, diventando capaci di adoperarsi anche in quello che ora si crede di non saper fare, tanto più potremo rispondere alla concorrenza che proviene dai paesi emergenti. In sostanza, dovranno sempre più essere presenti le specializzazioni disciplinari di ogni competenza, ma, nello stesso tempo, ci vorranno abilità che dimostrino di sapere risolvere le emergenze di questo tipo di produzione. Tutto ciò non sarebbe di per sé difficile, ma mancano i supporti e le scelte politiche a monte che facilitino questa formazione. Personalmente, mi sembra che insistendo sulla solita iperspecializzazione si giunga al risultato alienante tanto la vita delle persone quanto la loro professionalità, specialmente rispetto alla natura ampia della mente umana, che predilige comunque una conoscenza tanto sicura quanto creativa. Solo in questo modo, possiamo effettivamente innovare le nostre industrie e fermare l'invasione senza controllo di un mercato che produce solo nuove forme di schiavitù per il basso costo di una mano d'opera senza i contenuti etici dell'Occidente più civilizzato. Di Alessandro Bertirotti, l'Antropologo della Mente
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