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Apr 13

TEORIA E PRASSI DEL GENOCIDIO. Di Maurizio Bonanni

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modificata Il "Genocidio", la faccia (appena) nascosta del Dio Marte. Perché, occorre dire, tragedie immani, come quelle degli armeni, degli ebrei e, oggi, dei cristiani (perseguitati e decimati a milioni) hanno mostrato come non sia poi così difficile implementare simili pratiche in tempo di guerra. Sono proprio gli eventi bellici a mettere in condizione i responsabili politici, militari e amministrativi delle stragi di ritenere politicamente gestibili -a medio-lungo termine- le ripercussioni sulle loro condotte genocidiarie. La prassi consolidata delle politiche negazioniste va dalla più efferata menzogna (le vittime vengono screditate per essere dei traditori, o "quinte colonne" del nemico, o dei "cani infedeli", nel caso dei non-islamici, attualmente perseguitati da Daesh-Isi), alla minimizzazione dei fatti realmente accaduti; per terminare con il severo inasprimento delle pene, per chi osi denunciare pubblicamente il genocidio, nelle sue varie fasi di attuazione e, soprattutto, "ex-post", come accade nel caso della Turchia contemporanea. In tal senso, è emblematica la recente decisione, presa da Erdogan, di convocare il nunzio apostolico e di ritirare l'ambasciatore turco presso la Santa Sede, a seguito della denuncia del genocidio degli armeni, da parte di Papa Bergoglio! Rileggendo alcuni atti, conservati negli archivi del processo di Norimberga ai gerarchi nazisti, lo stesso Hitler, nel corso di una riunione delle SS a Obersalzberg, nel 1939, fece notare ai suoi fedelissimi come, all'epoca, le attività di sterminio degli armeni fossero già cadute, in pratica, nell'oblio. Da qui, l'invito ai suoi pretoriani a eliminare, senza pietà, donne, uomini e bambini ebrei, nel corso delle operazioni belliche, relative all'invasione e all'occupazione della Polonia. In termini più generali e "sistemici", occorre chiedersi, in primo luogo, che cosa accada perché, all'improvviso, si generi un "rift" (termine geologico, che indica una profonda spaccatura della crosta terrestre, per le gigantesche tensioni che si accumulano tra la superficie del pianeta e la sottostante litosfera) incolmabile tra le varie comunità interagenti e compresenti, che per molti secoli avevano convissuto in pace fino a quel momento, trovando nel passato (v. Libano, Irak, Libia!) un comune modus vivendi, pur nel mantenimento delle reciproche differenze religiose, etniche e linguistiche. Secondariamente, com'è possibile che questa improvvisa depressione scarichi, in brevissimo tempo, la sua energia in aperti, indiscriminati massacri, degli uni nei confronti degli altri, che appena poco tempo prima dividevano la stessa tavola, gli stessi spazi, la stessa aria, e convivevano pacificamente all'interno di uno stesso territorio? Esistono, o no dei fattori persistenti, immutabili nel tempo, che contribuiscono -in modo assai significativo e dirompente- all'attivazione di atroci e insanabili conflitti infracomunitari, tra i diversi gruppi? La risposta deve essere ricercata allineando diversi fattori di analisi. In primo luogo, va detto che i pogrom rappresentano il sottoprodotto di un lungo -e invisibile!- percorso di gestazione, attraverso i secoli, dei processi di radicalizzazione, come nel caso degli armeni e degli ebrei. Per entrambi i gruppi citati, infatti, si verifica l'assenza di legami unificanti, derivanti da identità, o interessi storicamente condivisi con le altre comunità nazionali (sia minoritarie, che maggioritarie!). Ovvero, nella semenza del genocidio, non esiste un possibile deterrente disincentivante, come lo sarebbero un amalgama, un comun denominatore, all'interno di una stessa matrice di nazionalità, cultura, religione, razza, lingua, collegati anche al perseguimento di fini economici comuni. Ed è proprio il persistere di tali, inconciliabili differenze, sancite dall'importanza che ciascuno dei protagonisti attribuisce alla conservazione dei propri, distintivi legami comunitari, a costituire quel potenziale rift simbolico di cui si parlava, lungo la cui faglia socio-politico-economico-religiosa si producono, di conseguenza, violenti terremoti e conflitti infracomunitari. Un recente, chiarissimo esempio è offerto dalla disintegrazione, in più entità separate, delle principali comunità che componevano l'ex-Jugoslavia, auto-identificatesi nella mistica del "croatismo" e del "serbismo". Identicamente a quanto accaduto, dopo il 1992, a quelle comunità minoritarie, che erano state forzate ad assimilarsi e convivere (anche grazie a drastiche e cruente operazioni di resettlement, o re-insediamento forzoso, a tutto vantaggio delle locali popolazioni russofone), all'interno dei confini internazionali dell'ex-Urss. Entrambi gli esempi sono abbastanza illuminanti su come possa andare in frantumi, all'improvviso, l'equilibrio -solo apparentemente stabile!- di una convivenza durata per secoli! Il caso armeno e, soprattutto, quanto sta accadendo in Medio Oriente, con l'avanzare impetuoso del Nuovo Califfato islamico e il sospetto genocidio, in particolare, delle minoranze non-musulmane ortodosse, da parte dei neri Guerrieri di Allah, dimostrano che i legami comunitari (fondati esclusivamente sulla discriminante religiosa, nel caso di Daesh-Isi) sono molto più importanti dei buoni rapporti interpersonali, nel caso di esplosione di conflitti tra le diverse comunità interessate. E sono le nuove leadership a seminare i semi della discordia, che istigano le comunità interessate alla violenza e ai massacri, motivandoli con ragioni politico-religiose. Ma, come accadde nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, sono proprio i conflitti armati a creare il terreno propizio per la formulazione e l'implementazione della decisione di ricorrere al genocidio, per.. "decontaminare" i territori nazionali dalle minoranze indesiderate e odiate. Le guerre, infatti, tendono, da un lato, a esaltare, in seno alle differenti comunità, l'ossessività della minaccia incombente e della vulnerabilità, delle une, nei confronti delle altre. Dall'altro, lo stato di guerra fa sì che i responsabili militari e civili siano molto meno interessati a quello che accade all'interno dei loro Paesi, per concentrarsi, quasi esclusivamente, sulla minaccia esterna. Questo comporta, tra l'altro, un controllo molto più blando -motivato con il pretesto dell'emergenza nazionale- sul rispetto delle libertà e dei diritti dei cittadini. Tanto più che, in un simile clima, l'eventuale censura da parte del mondo politico e dell'opinione pubblica internazionali diviene, di fatto, un elemento secondario e irrilevante, dal punto di vista delle leadership belligeranti. Ne deriva che, non di rado, lo stato di guerra elimina le opzioni politiche alternative, lasciando emergere l'ipotesi e l'attuazione pratica del genocidio come una "percorribile" scelta radicale, da parte dei regimi più dispotici e illiberali. Ecco, tutti i fattori sopra analizzati (tratti dall'illuminante saggio breve, risalente agli anni 90: "A Lecture on The Armenian Genocide", del Prof. Stuart D. Stein) sono, oggi, ben presenti nella strategia genocidiaria e di pulizia etnico-religiosa di Daesh-Isi e delle altre milizie fondamentaliste collegate. Così, tanto per la cronaca! Di Maurizio Bonanni
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