È tutta questione di…
interessi non universali.
Che le cose andassero male nell’
Università italiana lo sappiamo ormai da tempo, e ve lo dice uno che la cosa la vive dall’interno, ma che fossero giunte sino a
questo punto forse non si poteva presumerlo. Parlano però i dati e quelli presentati dal Miur sono eloquenti e chiari.
Non voglio affrontare tutti i temi legati al perché di questa situazione nazionale, peraltro in linea perfetta con altri contesti culturali nei quali le cose vanno sempre peggio (con il patrocinio diretto ed indiretto della politica nazionale), mentre mi soffermerò su due punti essenziali.
Il
primo riguarda la selezione degli studenti con i
test di ingresso e dunque la presenza del numero chiuso. Innanzi tutto, il numero chiuso non prevede di per sé la presenza della selezioni all’ingresso che, così come è costruita non serve a nulla, se non ad
escludere giovani da questa possibilità di studio. Per non parlare nemmeno del tipo di domande sottoposte, questi test non sono affatto adeguati ad una valutazione delle
motivazioni allo studio che spingono gli studenti a scegliere una facoltà al posto di un’altra.
Piuttosto che escludere a priori numerosi studenti e volendo comunque operare una qual sorta di selezione sulla base del rendimento accademico, sarebbe invece molto più
efficace imporre il primo anno un preciso numero di esami e una media dei voti, grazie ai quali sarebbe possibile o meno procedere all’iscrizione al secondo anno. Questo meccanismo sarebbe del tutto funzionale ad una limpida selezione
per merito degli studenti, ma forse, mi viene il sospetto, meno utile ad altri personaggi.
Altro tema riguarda i dati positivi del rapporto che alcuni atenei riescono ad avere con il mondo del lavoro. In questi casi, non dovremmo parlare di Università, da
Universitas – termine che dovrebbe ricordare qualche cosa di universale e il più generale possibile – ma piuttosto di
Scuola Post-superiore per la formazione di Esperti.
Se l’Università si riduce solo a questo, con una eccessiva attenzione al mondo del lavoro, il concetto di
metodo, inteso come stile di ragionamento e
meta hodos, ossia
strada per andare oltre, verrebbe tenuto troppo lontano dalla formazione stessa, limitando l’acquisizione di competenze spendibili maggiormente.
Gli atenei che operano in questo modo hanno lo scopo di agevolare i
finanziamenti all’ateneo stesso per l’esecuzione di ricerche finalizzate al
business, senza alcuna preoccupazione per la formazione di giovani in grado di avere una
visione generale della scienza e sulla scienza. Ma, evidentemente, anche questo ha uno scopo caro
ad alcuni e non utile al miglioramento della qualità della preparazione e dello studio per tutti gli altri.
L’
Università dovrebbe essere accessibile a tutti: dovrebbe essere in grado di verificare l’assunzione di abilità personali sulla base di capacità generali della mente umana e dovrebbe riuscire a sviluppare un
metodo di ricerca e risoluzione dei problemi spendibile nel maggior numero di situazioni che fanno capo alla disciplina scelta. Così saremmo nelle condizioni di avere persone in grado di sostituire questa penosissima classe dirigente, presente a tutti i livelli istituzionali della Nazione, che non è in grado di avere né di sviluppare o comunicare un’ampia
visione del futuro, secondo progetti nei quali tutti i cittadini sappiamo riconoscersi.
Universali, per l’appunto.
Alessandro Bertirotti, l'Antropologo della Mente